In seicento a San Pietro per l’addio a Renzo e Natalino «Serve più responsabilità, basta tragedie»

La rabbia e l’amarezza di parenti e amici. L’appello di don Narciso: le leggi non bastano per evitare drammi come questo

VENEZIA. «Andavano a pescare, in laguna. Non doveva finire così. Perché è successo?». C’è tanta commozione e ancora nessuna risposta alla domanda il giorno dell’ultimo addio a Renzo Rossi e Natalino Gavagnin. Ma anche tanta rabbia. Perché, come dice un parente dall’altare, la colpa di una tragedia come questa sta «nell’ignoranza, nella presunzione e nella stupidità».



Il prato davanti alla basilica di San Pietro inizia a riempirsi fin dalle 10.30. Manca ancora mezz’ora al funerale dei due amici pescatori. Dal cielo grigio spuntano timidi raggi di sole, chi arriva trova qualche amico con cui parlare. Si conoscono tutti, se non per nome almeno di vista. Ci sono gli amici pescatori, i parenti, i familiari, i conoscenti, i nipoti, gli amici dei cari. Ma ci sono anche i colleghi di lavoro di Renzo e Natalino: si vedono gli stemmi di Actv e Venezia Taxi, dove ha lavorato per anni il primo; c’è qualche infermiere e operatore sanitario, ex colleghi del secondo. Chi ha potuto, non è mancato. Alla fine, saranno più di seicento persone.

È il funerale di un intero sestiere, lo ripeterà anche don Narciso Belfiore durante la celebrazione. Non poteva essere altrimenti, per una vicenda che ha colpito così nel profondo Castello. Sottovoce, perché è un giorno triste, si sente qualcuno ripetere: «Una vera tragedia, non doveva finire così». Chi ascolta, annuisce a testa bassa. Poco dopo le 11, arrivano le bare dei due amici. Proprio dall’acqua, lì dove Renzo e Natalino hanno vissuto fino agli ultimi istanti.



Si crea un corridoio umano, i feretri vengono caricati a spalla e portati verso la basilica. È l’inizio dell’ultimo addio, è il momento delle lacrime e dell’applauso che accompagna il corteo nella navata centrale. Inizia la cerimonia. La celebra don Narciso Belfiore, parroco di San Pietro Apostolo, San Giuseppe di Castello, San Francesco di Paola e Sant'Elena Imperatrice. Mentre ricorda il “bel gesto” della corona di fiori lanciata sabato scorso, durante il corteo di barche proprio sul luogo dell’incidente, compaiono dai banchi nella navata centrale i primi ventagli. Si cerca un po’ d’aria, la Chiesa è piena in ogni ordine e grado e la temperatura si alza. Terminata la lettura del Vangelo, è il tempo della riflessione.

«Questa tragedia ha colpito tutti» dice dall’altare don Narciso, durante l’omelia «il segno tangibile è la presenza così numerosa di oggi. Di fronte a fatti come questi, i provvedimenti da prendere spettano a chi di competenza. Eppure la domanda sorge spontanea: come si può fare affinché non accada più?». Per don Narciso, ci vuole «qualcosa di nuovo». Cosa? C’è chi parla di controlli maggiori, di limiti più severi, di scatole nere e patenti più rigorose. Una risposta, don Narciso, non la dà. Non è il suo ruolo: «Sta alle persone competenti», dice. Basta che si faccia qualcosa perché un dramma così non ricapiti più. «Però, che si sappia: le leggi servono a poco» continua «senza educazione e responsabilità».

Il secondo passaggio dell’omelia è sull’amicizia che legava Renzo e Natalino. «Chi li conosceva» dice don Narciso «sottolinea questo legame, lo stesso che unisce Castello, il nostro sestiere, nei momenti più delicati».

La cerimonia si avvia alla conclusione, gli ultimi minuti sono dedicati ai ricordi di amici e familiari. Sale all’altare un cugino di Gavagnin. Ha in mano una lettera degli ex colleghi, prima però si lascia andare a una riflessione: «Domandiamoci perché siamo qui. Questo non è destino, non è malattia. È una tragedia, che vivo con rabbia». Una rabbia, spiega, che va trasformata in saggezza. Ma è dura: «Questa tragedia è colpa di ignoranza, presunzione e stupidità. Questa tragedia non può succedere in laguna, a due persone che vanno a pescare». —




 

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