In campo dopo il trapianto, la pallavolista Sara Anzanello si racconta
MESTRE. Una carriera di successo, che negli anni ha visto susseguirsi premi e trofei a tutti i livelli, tagliata da una malattia tanto violenta quanto rapida che ha comportato un trapianto di fegato e una lunga riabilitazione, comunque non sufficienti a spegnere la voglia di vivere e lottare: quella di Sara Anzanello, 36 anni, pallavolista professionista nata a San Donà, è una storia di tenacia e caparbietà. Domenica mattina, al centro pastorale Urbani di Zelarino, è stata lei, ex azzurra (ha vinto tra l'altro un Mondiale nel 2002, due Coppe del Mondo e tre Coppe Italia), a raccontarla ad un auditorium gremito in occasione della “Giornata del dono” di Aido, l’associazione italiana per la donazione di organi, tessuti e cellule.
Un malato e uno sportivo sono figure agli antipodi, cosa è cambiato nella tua vita dopo l’operazione?
«Come molti atleti ero abituata a considerarmi invincibile, forte di una preparazione impeccabile e di una dieta sanissima, eppure la malattia non fa alcuna distinzione. Certo, io non ho dovuto aspettare un trapianto: ero all’estero per giocare, sono entrata quasi subito in coma e sono stata portata prima a Istanbul e poi a Milano, dove mi sono risvegliata quando era già tutto finito, ma la convalescenza è stata durissima. Non ho più potuto giocare, ma ho anche dovuto imparare di nuovo a camminare, a legarmi i capelli, a mangiare da sola... Fortunatamente il mio animo sportivo ha interpretato tutto questo come una sfida».
Come sei riuscita a trovare una nuova serenità dopo l’intervento?
«Per molto tempo ho attraversato fasi emotive molto differenti, a tratti ero euforica, spesso però precipitavo nel senso di colpa: se io ricevevo un fegato nuovo voleva dire che il donatore era morto. Per stabilizzarmi ho dovuto aspettare di conoscere Stefania, una ragazza giovane e appassionata di pallavolo il cui padre, una volta morto, aveva donato tutti i suoi organi; lei mi ha spiegato che ogni anno, nell’anniversario della scomparsa del genitore, non piangeva per lui ma si rallegrava per tutte le persone che aveva salvato. È stato allora che ho capito quale grande dono avevo ricevuto e ho deciso di cambiare le mie priorità per vivere fino in fondo il tempo che mi era stato concesso».
Nonostante tutte le difficoltà, comunque, alla fine hai rivisto il campo da pallavolo.
«Sì, dallo scorso febbraio sono tornata sotto rete con la Igor Trecate, una squadra del Novarese impegnata nel campionato di B/1. Non so per quanto, ma per me era fondamentale terminare la carriera per una mia scelta, non perché costretta da una fatalità della vita. Oggi comunque sto meglio, anche se ho ancora qualche affaticamento nel continuare a prendere le medicine, ma è normale: abbassano il sistema immunitario».
Quali sono i tuoi piani per il domani?
«Innanzitutto sono molto contenta di poter raccontare la mia esperienza e aiutare l’ Aido. In Veneto è la prima volta, ma ho già partecipato a diverse attività di sensibilizzazione in Piemonte e nel Milanese: soprattutto nelle scuole è possibile vedere subito l’interesse dei ragazzi, che non risparmiano domande. Poi ho ripreso a studiare: mi sono iscritta a Scienze motorie. Oggi cerco anche di prestare più attenzione alla famiglia, di avere una migliore qualità della vita».
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