«Il sesso è la mia malattia». Rocco Siffredi scoppia in lacrime

LIDO. No, non è come sembra. Non è il possesso di migliaia di donne, né la plasticità di tutte le posizioni immaginabili; non è l’invidia degli altri maschi o l’adorazione delle sue partner e men che meno la bulimia di ciò che l’ha reso famoso nel mondo.
Nulla di quello che ha illuminato la sua carriera di attore pornografico ha reso Rocco Siffredi un uomo felice; e onestamente verrebbe da dubitarne se non fosse per la commozione che gli sale su per la gola, bagna i Ray-Ban specchiati e per qualche minuto se lo porta via, così, come un ragazzo al suo primo casting, nel mezzo della conferenza stampa sul film che narra la sua vita.
«Questo film è stato per me molto difficile perché racconta il senso di colpa che mi porto dentro da ventiquattro anni a causa della mia dipendenza dal sesso» spiega «ho cercato di fermarmi ma non ci riesco».
Rocco Siffredi, 52 anni, originario di Ortona, due figli ormai grandi, una moglie bellissima di nome Rosza che mentre lo aspetta a casa fa yoga invece di divorarsi le unghie, arriva al festival con un documentario firmato dai francesi Thierry Demaizière e Alban Tuerlai (sul grande schermo dal 31 ottobre al 3 novembre, a Venezia evento speciale per le Giornate degli autori) che, a dispetto della profusione di accoppiamenti laocoontici, non ha nulla di pornografico.
«Volevo che il film fosse soprattutto sincero che raccontasse tutte le sfumature del porno, anche i lati negativi e le fragilità» spiega. «L’ho fatto perché forse era arrivato il momento di svuotarmi del tutto».
Rocco Siffredi, subito nudissimo, dopo il lungo primo piano del suo gioiello sotto la doccia, si toglie anche la pelle per raccontare quel demone che lo divora da quando, a undici anni, sfogliando una copia di “Supersex”, decise che sarebbe diventato una pornostar proprio mentre sua madre lo immaginava già prete.
«In famiglia ho avuto tutti contro» racconta «addirittura non volevano che toccassi i miei nipoti, ma io sapevo che quella, e quella sola, era la mia strada, anche se il mio sesso mi avrebbe poi devastato».
È evidente che con questo film Rocco Siffredi ha sentito il bisogno di spiegarsi meglio, di farsi umano, di banalizzare il proprio priapismo e di dimostrare che fare un film hard è un lavoro, così come un set zeppo di donne a tette all’aria è un ufficio. Ha voluto ricordare l’amatissima madre che ha vegliato fino alla fine, salvo non riuscire a contenersi di fronte a un’amica dell’anziana donna in visita di condoglianze.
«Non avevo ancora finito di abbracciarla che già mi ero tirato giù la cerniera» racconta nel film, senza vanto machista, bensì inorridito dalla propria incontinenza.
Eccolo, il demone. Ecco il desiderio che si macchia di vergogna, come nelle tragedie, e infatti i due registi raccontano che hanno voluto rappresentare Rocco come il personaggio di una tragedia di Shakespeare.
«Uno che ha corso tutta la vita con l’autorizzazione della moglie e, da un certo punto in poi, anche della madre, per fare ciò che voleva senza che gli sia bastato per essere felice. E difatti ogni volta lascia sul set qualcosa di sé, un pezzo della sua anima».
È l’opposto del godimento, e cioè il sacrificio, quello che sembra muovere Siffredi nella ricerca disperata del proprio piacere, nella genuflessione al desiderio che invece di spegnersi si autoalimenta.
«Quando ritorno a casa, cerco gli occhi di mia moglie per capire se ce l’ha con me» spiega l’attore «lei mi dice di no ma io non ci credo. Credo faccia finta di niente e questo mi logora». La signora, apparentemente la prende con filosofia: «Almeno io so dov’è e cosa fa mio marito».
Dei due, sicuramente, ora è lei quella che soffre di meno. Il tempo le sta restituendo piano piano un marito che fortunatamente ha il senso del ridicolo e dunque sta meditando su come passare i prossimi trent’anni, visto che le sue partner sono ormai più giovani del figlio più grande.
«Sto pensando di aprire un’accademia per insegnare il porno a Budapest e sicuramente continuerò a produrre film. A smettere ci penso sempre, ma non lo dico più». Il demone, ecco.
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