Il porto Off-shore ignorato dal Cipe
Chi non semina non raccoglie, dice l'antico e popolare proverbio. Senza un adeguato, univoco e insistente "gioco di squadra" tra istituzioni e società civile veneziane nelle stanze dei bottoni a Roma, non si portano a casa i finanziamenti ai progetti presentati. Così anche l'attesa riunione del Cipe dell’altro ieri – tenutasi al termine del Consiglio dei ministri – tra la sfilza di progetti approvati e finanziati non c’era il progetto preliminare del nuovo porto Off-shore al largo di Venezia, un’alternativa alla più lontana Rotterdam per le gigantesche navi porta-container in arrivo del Far East asiatico e dirette ai grandi e lontani porti del Nord Europa.
Aspettative tradite. A sollecitare e aspettarsi una delibera positiva del Cipe sul tanto discusso progetto del porto Off-shore veneziano alla vigilia di Ferragosto sono stati recentemente non solo i deputati veneziani del Partito Democratico (Michele Mognato, Andrea Martella, Delia Murer, Sara Moretto e Davide Zoggia) ma anche il senatore di Forza Italia, Mario Dalla Tor e il sindaco Luigi Brugnaro a margine del consiglio comunale. Ma così non è stato e ora più di qualcuno – a cominciare dai porti concorrenti dell’Alto Adriatico – dice che questo segna la definitiva bocciatura del mega progetto da quasi 2 miliardi di euro voluto con tanta determinazione da Paolo Costa per la realizzazione del nuovo terminal Off-shore a otto miglia nautiche al largo della bocca di porto di Malamocco, dove i fondali hanno una profondità naturale di venti metri, accessibile anche alle grandi navi porta container che nei bassi fondali della laguna non hanno accesso.
Costa insiste. Ma proprio Paolo Costa, seppure rammaricato di non veder decollare il progetto prima della fine del suo ultimo mandato al Porto di Venezia (scade in ottobre prossimo) dà la propria lettura: «Non era prevista una delibera del Cipe sul nostro progetto nella riunione del 10 agosto».
Anzi, Costa ricorda che l’Off-shore ha un “project financing” che interessa ancora gli investitori cinesi e «non è mai stato così forte e indispensabile», tanto da avere già avuto il via libera del ministero dell’Ambiente e dopo l’istruttoria del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti è stato girato al Comitato per la programmazione economica, cioè il Cipe, che lo sta esaminando e presto deciderà in merito», lasciandolo in eredità al suo successore.
I tre ostacoli. Al caparbio ottimismo di Paolo Costa si contrappone il pessimismo di chi continua a sostenere che sull’Off-shore veneziano pesano come macigni tre grandi ostacoli. In primo luogo la mancanza di un accordo tra tutti gli scali dell’Altro Adriatico (da Trieste, Monfalcone e Ravenna, fino a Capodistria e Fiume) e l’impossibilità di diventare un’opera strategia condivisa da tutti, malgrado sia stata progettata per «intercettare tre o quattro milioni di Teu (unità di misura dei container) che attualmente vanno a Rotterdam e ai porti tedeschi sul mare del Nord. Il secondo ostacolo sarebbe la cosiddetta «rottura del carico», ovvero l’alto costo e l’incerta redditività dell’operazione in quanto prevede lo sbarco dei container dalle grandi navi per poi caricarlo in navi più piccole, le cosiddette “Mama Vessel” per le quali il Porto di Venezia ha avuto un finanziamento per un prototipo sperimentale dall’Unione Europea. Infine, il terzo e non meno importante ostacolo: l’alto costo e la conseguente difficoltà di avere certezza dei finanziamenti privati promessi dagli armatori cinesi (che hanno garantito, per ora solo a parole) di voler investire 1 miliardo e mezzo di investimenti) e quelli in predicato (500 milioni) dello Stato.
Le valutazioni del ministero. Dal canto suo il ministro delle Infrastrutture, Delrio, ha dichiarato qualche settimana fa al nostro giornale: «La piattaforma Off-shore nell’Alto Adriatico è una proposta complessa e innovativa che stiamo valutando in sede tecnica senza pregiudizi». «I tempi della conclusione dell'iter amministrativo di approvazione del progetto preliminare» aveva aggiunto «non sono lunghi. «In generale» ha però precisato il ministro «prima di intraprendere investimenti in nuove opere, come metodo vogliamo valutare se esistano infrastrutture che rispondono già alle stesse esigenze».
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