«Il calzaturiero non delocalizzi» Ora la concorrenza è napoletana

I dati della Cgil su un nuovo fenomeno: da Marche, Campania e Toscana scarpe a prezzi stracciati Colletti: «Il distretto della Riviera del Brenta si difenda certificando la filiera e colpendo i furbetti»

DOLO. «Stop alla delocalizzazione. Vanno premiate le aziende che puntano sul Made in Italy. In dieci anni dal distretto della Riviera del Brenta su un migliaio di aziende se ne sono andate circa 110, cioè più del 10%. Qui sono state lasciate reti commerciali e magazzini. Queste imprese vanno punite facendosi restituire fino all’ultimo centesimo i benefit se incassati dallo Stato per gestire situazioni di crisi».

La denuncia ieri di Riccardo Colletti segretario metropolitano Filctem Cgil in un convegno dal titolo significativo: “La tutela del lavoro nella filiera della moda” assieme a Confartigianato, Confindustria e rappresentanti ministeriali. «In Riviera abbiamo censito 712 aziende del comparto calzaturiero», ha detto Colletti, «danno lavoro grosso modo 12 mila addetti. Essi rappresentano, secondo i dati Acrib (Maestri calzaturieri del Brenta, confluiti in Confindustria), il 65% della forza lavoro del comparto in Veneto e il 13,8% in Italia. Il volume produttivo al 31 dicembre 2016 è di 20 milioni di paia di scarpe prodotti, cioè il 30% del totale veneto e il 10,6% di quello italiano. Pur in presenza di un’innegabile crisi, le grandi griffe hanno rafforzato la loro quota sul mercato».

«Bisogna pero intervenire con urgenza», ha sottolineato Colletti, «sul fenomeno della delocalizzazione. Vanno penalizzate quelle imprese che usano i soldi dello Stato per gestire la crisi del mercato, ma anche defiscalizzazioni, e poi emigrano». Filctem ha sollecitato Confindustria e Acrib ad aderire con più forza poi al marchio della calzatura della Riviera del Brenta avviato già da quasi due anni e non ancora decollato. Si contano infatti fra gli aderenti poco più di una decina di aziende. Confidustria con i suoi rappresentanti si è difesa argomentando che l’adesione a queste filiere certificate sono dei costi, degli aggravi in più per aziende già tartassate dalla pressione fiscale. Confartigianato invece ha portato l’esempio dell’etichetta parlante un sistema di controllo del prodotto della filiera, che ne traccia la provenienza, anche questo spesso ritenuto troppo oneroso.

«In questi anni», hanno concluso Colletti e il segretario della Cgil di Venezia Enrico Piron, «sono state scoperte in alcuni laboratori condizioni disumane, spesso di schiavitù e clandestinità dei lavoratori. Erano laboratori spesso gestiti da cinesi. Ora però il fenomeno sembra aver cambiato natura». In un recente studio di Femca Cisl è emerso infatti come in Riviera non esistono più solo i laboratori irregolari cinesi, che ormai costano quasi come i laboratori italiani (0,30 euro contro 0,34 euro al minuto), ma si è fatto avanti un nuovo fenomeno: quello dei laboratori napoletani, toscani e marchigiani che costano 0,09 euro al minuto a cui potrebbero fare riferimento tante aziende dell’area.

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