«Il burkini? Un passo verso la libertà»
VENEZIA. "Il problema è chi lo indossa. Il problema è la donna musulmana che deve essere additata, giudicata, analizzata, studiata in ogni sua mossa. Noi musulmane siamo diventate uno strumento propagandistico becero e stupido. È ipocrita chi ci vuole libere e ci impone i propri schemi dettandoci regole di stampo maschilista. È ridicolo e pericoloso questo atteggiamento che vuole individuare a tutti i costi, anche in un momento di relax, spensieratezza e condivisione con la propria famiglia (fatta di uomini e donne), una minaccia alla sicurezza.Una minaccia inesistente che vuole deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dai reali problemi come la sanità, l’istruzione, il lavoro, la lotta al terrorismo, la prostituzione, la tratta di esseri umani".
E' forse questo il passaggio più significativo dell’intervento di Fatna El Hamrit, studentessa veneziana ventenne al Bo, di famiglia musulmana, con una seguitissima pagina Facebook e che così ha sintetizzato la sua posizione sull’uso del burkini.
Ovvero il costume per le donne musulmane che copre tutto il corpo - inventato 12 anni fa da una stilista australiana - e che in questi giorni ha scatenato non solo una ridda di polemiche ma addirittura la presa di posizione ufficiale della Francia che ne vuole vietare l’uso nelle sue spiagge. Lo schema sembra un po’ quello del dito e la luna.
La giovane studentessa rivendica per le donne musulmane la libertà di rispettare le loro tradizioni senza per questo essere additate - in un processo logico da far intorcolare le menti più fini - come fiancheggiatrici dei terroristi. Ti copri, quindi ti nascondi. Ma, soprattutto, nascondi la minaccia che porti con te. A prescindere, evidentemente, da tutto. Anche dal buon senso. "Siamo franchi", dice Fatna, "il problema non è questo indumento leggero e comodo che copre tutto il corpo lasciando il volto scoperto, se fosse così anche la tenuta da immersione avrebbe suscitato polemiche". Il ragionamento fila. Eppure la lettera della studentessa ha scatenato una sequela di commenti che neanche se avesse dichiarato guerra a qualcuno.
Nelle sue prese di posizione ideologiche, l’Occidente - anche nel dibattito sul burkini - rischia di mostrare il suo lato più goffo. «Chi ne contesta l’uso» fa notare il sociologo Renzo Guolo, «si schiera proprio con i fondamentalisti islamici che non vedono per niente bene il burkini e il fatto che le donne musulmane possano andare al mare o in piscina, socializzare e divertirsi. Il burkini è un passo verso l’erosione dei divieti e le forme di controllo sociale maschile sulle donne. Non è interessante se a noi piace o no. Per le donne musulmane rappresenta la possibilità di uscire, di fare sport, di prendersi cura di un corpo che nella tradizione islamica va solo nascosto. Vietare il burkini» prosegue Guolo, «vale come attestazione di incompatibilità dell’essere musulmano e vivere in Occidente. “Statevene a casa vostra” è il messaggio. L’esatta visione dei fondamentalisti: vietare ciò che favorisce scampoli di libertà, che segna una piccola ma importante conquista nella lunga marcia verso l’emancipazione».
«Quello sul burkini è un dibattito di cui non si sente alcuna necessità» la posizione di Alba Lazzaretto, docente di Storia moderna al Bo, «il problema è nella mentalità. La democrazia non si impone. Devono essere le donne musulmane a opporsi, da loro deve partire la liberazione, riappropriandosi di se stesse. E non sarei così sicura che questo processo sia compiuto nemmeno da noi. Certo» sottolinea la studiosa, «che le donne musulmane possono dirsi libere di scegliere di usare il burkini, così come il velo: ma in un contesto di coercizione, che le induce ad assoggettarsi alla volontà dell’uomo. Qui sta la questione di fondo. Con i nostri divieti e prese di posizione colpiamo quello che è un effetto, mentre la causa - la sottomissione delle donne all’uomo nella tradizione musulmana - sfugge alla riflessione».
Elena Livieri
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