«Ho insegnato per una vita, ora dono ai ragazzi i miei 4 mila libri»

Storie di generosità. Il professor Alessandro Todesca è un ex docente di inglese. Ha voluto regalare la sua collezione agli studenti del liceo classico Marco Polo e dell’Artistico. «Cosa fa un buon insegnante? Ama la propria materia e rispetta i ragazzi»

VENEZIA Alessandro Todesca, insegnante e scrittore, ha quasi 90 anni (li compirà il 13 novembre 2017). Per tutta la sua vita ha inseguito la verità cercando di trasmetterla ai suoi cinque figli e alle migliaia di studenti. Il professore, che fino a due anni fa ha vissuto in centro storico, ha trascorso la sua vita tra viaggi, soprattutto in Gran Bretagna e in Grecia, e libri. Ne ha oltre 4.000. La collezione con una raccolta di prestigiose enciclopedie è suddivisa in tre filoni: arte, letteratura e filosofia, musica. Di recente ha deciso di donare l’intera biblioteca, sua e della moglie, al liceo artistico, musicale e classico Marco Polo. Attualmente gli oltre 100 scatoloni si trovano nella soffitta della scuola in attesa di una loro collocazione.

Professore, lei è un grande dono per la città e gli studenti. «Ormai sono fuori della storia. Se nella vita ho qualche merito è quello di aver coltivato solo le qualità che la natura mi ha dato; non mi sono inventato o costruito niente. In parte sono stato costretto perché la scuola di una volta obbligava a studiare, a lavorare, a imparare. Se non si sapeva era a nostro rischio e pericolo. Nessun tribunale dei minorenni veniva a difenderci perché avevamo ragione, arrivavano solo gli schiaffoni dei papà e quella frase: tu devi studiare e basta».

Ma era esagerato? «Purtroppo lo era. La scuola così impostata era sbagliata; non c’è di peggio che prendere un titolo di cui non si hanno le capacità».

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Qual è la scuola ideale? «Gli studenti di oggi non vogliono la scuola attuale che è vuota. Sono intelligenti e avvertono la mancanza di un supporto consistente. Ai miei tempi era esagerata l’imposizione dell’apprendimento nozionistico, adesso invece c’è il nulla. La scuola nell’insieme costituisce la consapevolezza di fronte al mondo in cui vivi».

E l’insegnante ideale? «Non sono qua per dettare norme. Dico solo che fare il buon insegnante bisogna amare la propria materia, amare e rispettare i ragazzi. Alla fine mi sono accorto che io, ai miei allievi, volevo bene come ai miei figli. Questa è la chiave. Che differenza fa? Perché trattarli in modo diverso, meglio o peggio uno rispetto all’altro?».

Cosa implica essere docente? «È una parola grossa che comporta responsabilità. Non basta avere la laurea e sapere la propria materia, ovvio che bisogna saperla; ci vuole una qualità che hai o non hai; se ce l’hai è bene svilupparla, se non ce l’hai sarebbe onesto ritirarsi e cambiare mestiere. Ce ne sono tanti altri».

Perché ha voluto seguire l’insegnamento? «Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto anche se mio padre mi diceva: ma per carità, vai a finire ad essere il professore morto di fame. Questa potrebbe essere l’etichetta per il mio bigliettino da visita. Non siamo molto lontani dalle parole di mio padre perché l'insegnante non si arricchisce ma potrebbe arricchire gli altri. Il suo compito sarebbe almeno questo. Se io do a miei allievi insieme do anche me stesso. Non è un dare, cioè un vendere, è un passare quello che ho imparato, quello che tu puoi recepire, che ti può servire».

Da dove è partito per arrivare dov’è ora? «Da Trento, la mia città natale, sono andato via di casa, sono tornato, ho perso tempo, ho tardato a laurearmi. C’erano la musica, l’arte, i viaggi, il teatro a Roma. Allora era molto meno facile di adesso».

Quali materie lo hanno arricchito? «Il latino, il greco, la storia anche se è piena di delitti e violenze ma qualcuno l’ha fatta quella storia. Mi hanno salvato le letture, il piacere dei viaggi. La guerra fece il vuoto intorno, anche la mia casa fu distrutta. I tedeschi ci requisivano per aggiustare le strade o le ferrovie bombardate. A scuola non si andava più e noi ragazzi ci divertivamo. Ogni tanto di notte qualcuno cadeva dentro una buca, lo tiravamo su inzuppato d'acqua. Tra noi erano risate per mio padre una disperazione».

Che cosa ha ereditato dai suoi genitori? «L’onestà che oggi difficilmente s’incontra; soprattutto l’onestà di dire: questo lo so e questo non lo so; dimmi e spiegami. Oggi tutti sanno tutto, i giovani che ho avuto e ho sentito zittiscono i genitori con un: tu non capisci niente. In parte questa cosa bisogna accettarla, anche se gli manca la sostanza di quello che sanno sono una generazione più avanti».

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