Giorno della Memoria, i registri del carcere di Venezia

Basaglia tra ebrei e oppositori. I nomi di chi è entrato ed uscito tra il 1943 e il 1945.
BOLLIS INTERPRESS VENEZIA 13.01.2009.- CARCERI SANTA MARIA MAGGIORE.
BOLLIS INTERPRESS VENEZIA 13.01.2009.- CARCERI SANTA MARIA MAGGIORE.

Per la prima volta un carcere, quello veneziano di Santa Maria Maggiore, ha messo a disposizione i registri di entrata e uscita, quelli dall’8 settembre 1943 al 26 aprile 1945, e oggi l’Istituto veneziano per la storia della Resistenza presenta nella sala Montefiore della Comunità ebraica i risultati dell’eccezionale ricerca. «In quei due anni – racconta Marco Borghi, direttore dell’Istituto e coordinatore della ricerca compiuta da Giulio Bobbo – in carcere non ci vanno ladri e rapinatori, ma gli oppositori del regime e gli ebrei». Sono ben 3630 le schede biografiche di altrettanti detenuti, che raccolgono dati molto interessanti: «Ci sono quelli anagrafici – spiega Borghi - che ci permettono di capire la distribuzione nel territorio delle famiglie ebree arrestate nelle retate del dicembre 1943, oltre a quelle rastrellate nel Ghetto, e spuntano domicili diversi, probabilmente dove si erano nascoste grazie all’aiuto dei veneziani». I registri di Santa Maria Maggiore rivelano anche gli autori di ogni arresto e così «esce in modo chiaro - aggiunge il direttore dell’Istituto per la storia della Resistenza – la responsabilità degli italiani: almeno fino al febbraio 1944, in seguito le SS fanno da padrone, la Guardia nazionale repubblicana, che aveva inglobato anche i Carabinieri, e la Polizia operano decine di arresti di oppositori ed ebrei». Infine, i registri informano delle uscite dal carcere: ben 459 finiscono nei campi di lavoro o di concentramento in Germania, di cui 126 sono ebrei. La ricerca è iniziata quasi per caso, quando un vecchio partigiano, che voleva ricostruire anche con i documenti la sua odissea, ha chiesto a Marco Borghi di aiutarlo e di andare in carcere per fotocopiare la pagina del registro dell’ufficio matricola che lo riguardava. Sfogliandolo, lo storico ha capito quale possibilità c’era studiando quei registri. «E’ necessario ringraziare la direzione del carcere veneziano – sottolinea Borghi – della disponibiltà dimostrata, questa ricerca è un buon esempio per la politica della memoria condivisa, visto che hanno collaborato diverse istituzioni». Borghi sottolinea che lo studio dei registri , che doveva durare 8 mesi ma che poi si è ampliato, terminando dopo due anni, aiuta a capire anche l’estensione della rete della Resistenza, permettendo una ricostruzione storica e sociologica, grazie alla quale si dimostra che l’opposizione al fascismo fu estesa a tutte le classi, nelle schede biografiche degli arrestati si va dal vagabondo al conte, passando per il medico e l’operaio. «Inoltre – conclude Borghi – viene alla luce che la classe dirigente del dopoguerra cresce in carcere». Ecco spuntare la pagina con nome ed impronte di Giobatta Gianquinto, futuro sindaco di Venezia e poi senatore Pci, quella di Franco Basaglia, psichiatra e fautore della chiusura dei manicomi, di avvocati e medici. Infine, l’Istituto ha raccoltociò che poi hanno raccontato di quell’esperienza alcuni di loro. «Quando mi hanno chiuso in cella – scrive il futuro parlamentare Cesco Chinello – allora nella Resistenza – sbattendo violentemente la porta e inchiavardandola da fuori con i catenacci - il senso fisico della separazione - rimasto solo, sulla branda, sono esploso in un pianto convulso; era un’esplosione delle tensioni, uno sfogo per la paura...avevo 19 anni e non ero mai stato fuori casa». «Percorriamo immensi oscuri corridoi – racconta il futuro segretario generale della Cgil Armando Pizzinato – alle nostre spalle si chiudono tre grossi cancelli di ferro, il mondo esterno è sempre più lontano. Buio e freddo. Come comunista pericoloso sarò poi isolato, ma non sarò solo del tutto, avrò la compagnia di molte cimici e di grosse pantegane». «In carcere – scrive l’ebreo Marco Brandes – continuavano ad interrogarmi e a bastonarmi, ogni venerdì veniva questo tenente a chiedermi cose di cui non avevo la minima conoscenza. Alla fine gli italiani mi hanno consegnato ai tedeschi, che mi hanno mandato al capo dei concentramento di Fossoli, vicino Modena». «Erano con me mia mamma, mia sorella e mia zia – scrive Amalia Navarro, poi deportata ad Auschiwitz, assieme a tutta la famiglia – i nostri uomini erano stati assegnati al reparto maschile, mentre mia cugina, fresca di parto, era rimasta a casa e, costretta a letto, era piantonata dai poliziotti. Mi sembrava di impazzire , rinchiusa in una cella giorno e notte e chissà per quanto tempo». «E’ atroce la mancanza di acqua cui sono costretta – spiega Carla Liliana Martini – un litro al giorno che deve servire per ogni necessità: come bere, lavarmi, tener puliti i pochi panni e sciacquare la gamella». «C’era la fame – sostiene il futuro avvocato Gianni Milner – c’erano queste carceri allucinanti: su un angolo della cella dove eravamo in 10 c’erano tre buglioli di legno, uno serviva come gabinetto, uno per buttare i rifiuti e uno conteneva l’acqua da bere, erano uguali e vicini. Era nella tecnica delle SS umiliare il prigioniero».

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