Gestire le dighe mobili del Mose: un business da 30 milioni

Il sistema contro l’acqua alta in funzione non prima del 2018 a costi quadruplicati. La manutenzione, il ricco rebus da risolvere per i commissari voluti da Cantone. Con tanti lati oscuri

VENEZIA. Doveva costare un miliardo e mezzo di euro ed essere pronto nel 2008, come avevano promesso Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Sarà ultimato - forse - nel 2018. E di miliardi ne costerà almeno sei, quattro volte tanto. Senza contare la manutenzione e la gestione della grande opera: incognite ancora non risolte. Il 4 giugno del 2014 gli arresti per corruzione e l’inchiesta della magistratura avevano acceso i riflettori su una galassia (quasi) inattaccabile. Una corazzata che non temeva critiche tecniche o politiche di alcun tipo. E navigava incolume, incurante dei richiami della Corte dei Conti, dell’Unione europea, degli ingegneri indipendenti. Trent’anni di concessione unica, inventata dalla seconda legge Speciale del 1984, avevano garantito al Consorzio Venezia Nuova il monopolio totale di studi, lavori, collaudi e controlli con i fondi dello Stato. L’assenza di concorrenza e i prezzi fissati senza paura di perdere gare o commesse già previste per legge. E un fondo accantonato in parte “legalmente”, come il 12 per cento degli oneri del concessionario, oltre 700 milioni di euro su sei miliardi di lavori distribuiti in pubblicazioni, consulenze sponsorizzazioni. E anche, come poi si è visto, grazie all’evasione fiscale. Anni di dibattiti condotti con lo strapotere di chi ha sempre un consulente o un esperto da interpellare, uno studio, un giornalista o un politico da invitare perché parli della “necessità di salvare Venezia dalle acque alte”. È andata davvero così? Le alternative al progetto Mose non sono mai state seriamente studiate e prese in considerazione. Dubbi di natura tecnica sulle cerniere e sulla tenuta delle paratoie in caso di eventi estremi sono stati velocemente accantonati. Garanti della bontà dell’opera erano i presidenti del Magistrato alle Acque che avrebbero dovuto controllare i lavori (due di loro, Maria Giovanna Piva e Patrizio Cuccioletta sono finiti in carcere) e il governatore Galan, presidente della Regione dal 1995 e anch’egli arrestato per corruzione riguardo al Mose. Ma anche commissioni di esperti e comitati tecnici. Inutilmente i comitati e le associazioni hanno chiesto negli anni una verifica anche tecnica sul progetto. «Se è stato approvato sotto la spinta delle tangenti sarà tutto regolare?», chiedevano. Servono controlli e verifiche anche su quello che i ciclopici lavori del Mose, che hanno tolto dai fondali milioni di tonnellate di sabbia sostituendola con il calcestruzzo, hanno prodotto e produrranno sull’ecosistema lagunare, uno dei più delicati al mondo. Non si sa. E non si sa nemmeno quanto costerà la manutenzione delle 79 paratoie che formano le dighe mobili. C’è chi parla di 30, chi di 60 milioni di euro l’anno, più o meno il fabbisogno del Comune per coprire il buco accumulato e garantire i servizi ai cittadini. Chi pagherà? Chi gestirà la fase di avvio e sperimentazione visto che il Consorzio Venezia Nuova è destinato a essere sciolto al termine dei lavori? Domande e interrogativi che tocca ai nuovi commissari che governano il Consorzio (Luigi Magistro, Francesco Ossola e Giuseppe Fiengo, nominati sei mesi fa dal presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone) risolvere. Se non si vuole che oltre alla beffa dei soldi sprecati, delle tangenti e della corruzione, Venezia si trovi a pagare un vitalizio costosissimo per mantenere una grande opera completamente subacquea, esposta a corrosione e salsedine. La cui utilità non è stata ancora dimostrata.

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