Undicenne stuprata a Mestre, l’angoscia tra i genitori: «Temiamo per i nostri figli»
L’episodio ha squarciato la quiete del quartiere residenziale dove è avvenuta la violenza. La giovane aveva notato l’uomo seguirla e per questo aveva chiamato un’amica, che ha poi dato l’allarme

«L’ha seguita fino a casa, l’ha spinta dentro. Era giorno, lei era pure al telefono, aveva chiamato apposta un’amica. Ma allora come si può evitare una cosa così, come si può prevenire? Cosa ci separa da un orrore del genere, solo il caso?».
Francesco e Giorgia sabato mattina stanno caricando in auto alcune piante e mentre parlano si assicurano che il cancello automatico non li chiuda fuori, ma soprattutto continuano a lanciare occhiate verso le finestre, verso casa, quasi potessero vedere attraverso le tende, attraverso i muri, per controllare i due figli all’interno.
La loro apprensione di residenti del quartiere, di genitori, è la stessa di tutte le altre famiglie della zona, sconvolte dalla notizia della violenza, arrivata di casa in casa ben prima che sui giornali: «Venerdì il racconto di quello che era successo rimbalzava tra le chat, nei gruppi whatsapp della parrocchia, della scuola», spiegano, «Siamo terrorizzati. Ci serve il porto d’armi? È questo che ci domandiamo tutti, oggi».
Nella Mestre delle strade difficili, della lotta continua tra le forze dell’ordine e gli spacciatori, l’incubo ha finito per colpire lì dove nessuno se lo sarebbe aspettato: un graticolato disordinato di case anticipate da piccoli giardini, di vicoli alberati attraversati solamente dalle auto dei residenti, costrette a un continuo senso unico; a segnare i confini dell’abitato sono la chiesa e il patronato, i campi sportivi, la biblioteca comunale. +
Tantissime le famiglie, tantissimi i bambini, quasi tutti si conoscono, e ieri in tanti quasi si colpevolizzavano per non essersi precipitati ad aiutare: «C’è stato un urlo, sembra. Ma cos’è l’urlo di un ragazzino, in un quartiere dove ce n’è uno in ogni casa? I miei figli non fanno che strillare, dalla mattina alla sera, e ormai non ci affacciamo alla finestra neanche quando sentiamo suonare un antifurto, se non per lamentarcene».
Tra i cancelletti e le siepi, di solito, si muovono pattuglie di ragazzini, a piedi o in sella a biciclette colorate; ieri anche quelli a pedali erano scortati da una mamma, da un nonno. Ma il cambio di abitudini che un osservatore occasionale poteva notare solo grazie a un’imbeccata è stato invece ben riconosciuto dal parroco, che venerdì pomeriggio si è visto davanti uno stuolo di genitori: «Normalmente qui i bambini arrivano da soli e da soli rientrano a casa, il rione è praticamente pedonale e le distanze sono brevissime», spiega il prete, «Invece, l’altro giorno, dopo le attività in parrocchia è arrivato un adulto per ogni bimbo, tutti sono stati riaccompagnati a casa dai genitori o da altri parenti. C’era una tensione palpabile, le famiglie si sono raccontate l’accaduto nel corso della giornata e tutti erano sconvolti».
Il parroco abbraccia il quartiere con lo sguardo, poi continua: «Questa è una zona che io spesso definisco come “un groviera”: è piena di buchi, di passaggi, di piccoli spazi. Sono quelle caratteristiche che la rendono molto vivibile, ma anche estremamente permeabile. Nel bene, di solito, ma evidentemente anche nel male».
Dove non sono arrivati i messaggi dei cellulari si è spinto qualche residente, che tra venerdì e sabato avvisava a voce chi incontrava lungo le stradine attorcigliate, trovando poi eco nella pasticceria all’angolo, nel primo bar dei dintorni.
«Un amico anziano questa mattina mi ha riferito tutto, ne ha parlato qui al bancone», conferma la titolare del locale, «Sono senza parole: noi qui siamo sempre aperti, alle 18-19 siamo in piena attività, ma non abbiamo sentito niente, nessun grido, non abbiamo neppure visto le sirene dei carabinieri o dell’ambulanza che poi l’hanno portata in ospedale. Ora è difficile pensare ad altro, a come è cambiato il mondo: dobbiamo stare attenti a tutto e abbiamo paura di tutto, me ne rendo conto quando mi muovo in centro e, istintivamente, controllo sempre più spesso il mio riflesso nelle vetrine per assicurarmi di non essere seguita. Quello che ha subito quella ragazzina, però, è qualcosa di inimmaginabile».
«Tornava a casa da sola, è vero, e la prima reazione è chiedersi come mai», sospira un papà, «Però non può essere questo il problema: io da bambino andavo a giocare a basket al palazzetto, prendevo l’autobus da solo e da solo tornavo, i miei compagni di squadra salivano uno dopo l’altro, soli come me. Cosa è cambiato?».
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