Folla a San Marco per la messa di mezzanotte
VENEZIA. Una folla immensa, soprattutto giovani, si è riversata in Basilica di San Marco. E’ la notte santa di Natale, un Bimbo è venuto ad abitare la terra. E tutto si è trasformato. Sin dalle 23,30 un flusso inarrestabile di fedeli ha raggiunto la Cattedrale per assistere alla liturgia vigiliare dell’Ufficio delle letture. Stracolma anche parte di Piazza San Marco.
Centinaia e centinaia di persone, silenziose, ordinate, non sono riuscite ad entrare. Il numero così elevato ha sbalordito persino il personale della Basilica: "Di Natale in Natale, mai come quest’anno. Non abbiamo ricordi di un Natale così sovraffollato”. Per regolare il flusso della gente sono intervenute le forze dell’ordine (Polizia di Stato e Carabinieri). Dalle ventiquattro all’una e trenta il Patriarca Francesco Moraglia – è il suo terzo anno nella diocesi veneziana – ha presieduto la messa della notte di Natale. Tra i presenti: il Prefetto Domenico Cuttaia, il Questore Angelo Sanna, il Procuratore aggiunto della Repubblica Adelchi D’Ippolito.
Durante il suggestivo rito liturgico l’incontro con la Storia dove l’Eterno irrompe nel tempo. Con tenerezza il Patriarca ha tenuto tra le sue braccia il piccolo Gesù e lo ha posato su una “culla” davanti all’iconostasi, visibile a tutti. Il senso religioso e familiare di quell’immagine ha scaldato il cuore. Ovunque luci che hanno illuminato la Basilica.
Nell’omelia, pronunciata dal pulpito, monsignor Moraglia ha proposto una vita all’insegna della semplicità e dell’essenzialità ben lontana dai fraintendimenti, il tripudio del consumo, i viaggi turistici, il panettone, la marca dei vini. A Natale c’è ben altro. Il Patriarca ha detto: “La grazia di Dio è apparsa a tutti gli uomini. E quel Bambino è l’umanità di Dio. Sta a noi accogliere il suo progetto”. E ha ricordato le parole di Papa Francesco: “Il Natale è la grande misericordia di Dio”.
Poi ha aggiunto: “Dio parte dalla fragilità umana non dal clamore. Ecco perché il mondo va così male. Ripartiamo nella nostra vita, chiunque siamo, dalle cose piccole, semplici, umili. Il Natale è un progetto storico, è una scelta culturale, prima di tutto è scelta di fede”. Oggi in Basilica, alle 10, il Patriarca celebrerà il solenne pontificale del giorno di Natale. Poi si trasferirà nella chiesa di San Girolamo a Mestre per condividere il pranzo di Natale con persone sole e senza fissa dimora.
Ecco il testo dell'omelia pronunciata oggi in Basilica
S. Messa del giorno di Natale (Venezia, Basilica San Marco - 25 dicembre 2014) Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia Fratelli e sorelle carissimi, il Natale, se compreso nella sua realtà, è fatto sconvolgente. L’annuncio del Natale, secondo il Vangelo, mi dice che Dio si fa uomo e inizia a vivere un’esistenza in tutto simile alla mia, una vita pienamente umana. Gesù è l’umanità gradita a Dio, l’uomo come avrebbe dovuto essere alle origini, prima del peccato. Gesù è l’umanità in cui Dio si ritrova, poiché, finalmente, incontro l’uomo come l’aveva pensato. Il Natale è, alla fine, il vero compiersi della creazione.
Ma la parola Natale, oggi, non indica più quello che il Vangelo intende; è parola abusata e ognuno può fargli dire quello che vuole. Anzi, Natale - da fine novembre ai primi di gennaio - diventa l’efficientissimo supporto su cui contano i vari network per incrementare audience e vendite. Sì, il Natale è ridotto a supporto commerciale e mediatico che moltiplica vendite e audience. Il Natale, così, si abbina o, addirittura, si identifica con un panettone, un viaggio, un vino…
Gli esempi sono infiniti. L’evento che ha cambiato il mondo e ha diviso la storia in un prima e in un dopo, decade a operazione di marketing. Troppo poco, veramente troppo poco, anzi, una bestemmia! A Natale, infine, sotto la spinta del consumismo si falsifica il significato del dono. Per il cristiano lo scambio dei doni natalizi ricorda il Dono che Dio fa di sé all’umanità; il dono, quindi, è invito a diventare - a nostra volta - dono per gli altri, scoprirsi dono gli uni per gli altri! Il dono, anche se è una piccola cosa, mi rende presente all’altro e, al di là del valore intrinseco, il dono dice vicinanza, ricordo, affetto.
Anche i regali, così, contribuiscono a far decadere il Natale a fatto commerciale, un Natale ridotto a mercato e regolato dalle leggi della domanda e dell’offerta. Fra pochi mesi aprirà i suoi cancelli Expo 2015, il grande evento mondiale sull’alimentazione. Questo evento ci dirà la strada lungo la quale si incammina, sotto la spinta di una globalizzazione sempre più invasiva, la nostra società. Il rischio è l’uomo unidimensionale, perfettamente omologato, espressione dell’ideologia del riduzionismo e del pensiero unico dominante; questo è il grande pericolo e la trappola da evitare.
Dobbiamo riappropriarci del Natale cristiano, riscoprendone la verità e la semplicità, ritornando all’evento di duemila anni fa. La strada è quella che ci ha indicato Francesco a Greccio. Lì, nel 1223, frate Francesco volle rivivere nel modo più realistico possibile la nascita del Salvatore; Francesco seppe esprimere quell’evento di grazia con la concretezza propria dei santi. La Legenda maior narra che solo dopo il permesso del Papa - Francesco agiva sempre così - e durante la celebrazione della santa messa prese un bambino in carne e ossa in braccio e lo depose nella mangiatoia: “…il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l'asino; e predicò sulla natività del Re povero; e, mentre il santo uomo teneva la sua orazione, un cavaliere scorse il vero Gesù Bambino” (Legenda maior, X,7).
Si tratta, allora, di liberare il Natale dalla cappa deformante che secolarizzazione, mondanizzazione e pensiero unico dominante hanno finito per depositare sull’evento che - per la sua semplicità - non richiederebbe esegesi complicate o ermeneutiche sofisticate ma, solamente, un cuore disposto a credere. Il vero problema è questo: un cuore che sia disposto a credere!
Qui ci può aiutare un pensiero di Madeleine Delbrêl, una mistica francese ancora poco conosciuta che, nella sua giovinezza, conobbe un periodo di ateismo radicale, duro e intransigente come solo i giovani sanno essere. Assistente sociale, vive e lavora nella periferia operaia di Parigi, a Ivry-sur-Seine, condividendo una semplice vita fraterna con alcune compagne a partire dal 1933, il desiderio è iniziare una "vita di famiglia" con gli uomini e le donne del quartiere.
La presenza di una municipalità comunista la mette a contatto con un contesto segnato da un aspro confronto tra comunisti e cattolici. Mossa dalla carità e dalle gravi emergenze della popolazione, non esita a collaborare con tutti su obiettivi particolari, ma sempre prendendo in modo chiaro e fermo le distanze dall'ateismo marxista e senza rinunciare a offrire sempre le ragioni evangeliche delle sue scelte.
All’età di 17 anni Madeleine scrive - in modo acuto - pensieri estremi e radicali; questi pensieri sono pietre gettate in faccia al suo interlocutore. La sua giovinezza e la sua intelligenza acutissima le permettono d’osare là dove altri si fermano. Ecco un suo scritto: «Dio è morto. Ma, se ciò è vero, bisogna avere la lucidità di non vivere più come se Dio esistesse ancora». Se Dio è morto - continua - allora la vita è la grande sconfitta e chi domina incontrastata è la morte. Non si può far finta di nulla, bisogna prenderne atto una buona volta. La ragazza, nella sua audacia adolescenziale, è spietata e subito aggiunge altro sale alle ferite: «Io sono stupita dalla generale mancanza di buon senso».
E ancora precisa: i rivoluzionari «sono interessanti, ma hanno capito male il problema»; essi, infatti, sembrano non comprendere che, un giorno, dovranno pure loro separarsi dal mondo nato dalla loro rivoluzione. Madeleine ne ha poi anche per gli scienziati, definiti infantili in quanto s’illudono pensando di poter sconfiggere la morte con i loro studi; i veri sconfitti, invece, saranno proprio loro che sconfiggeranno solo alcuni tipi di morte, ma non la morte. La morte no, quella rimane e la notizia - conclude con ironico sarcasmo - è che “la morte, per quanto la riguarda, sta benissimo…” (cfr. Antonio Sicari, Ritratti di santi, Jaca Book Milano, 2006, p. 767). Anche alla luce di questa spietata, lucida ma utile testimonianza, possiamo comprendere in modo nuovo il significato del Vangelo o buon annuncio del Natale.
Oggi, davvero, “la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta… Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria…” (cfr. Gv 1, 5.9.14), come afferma l’evangelista Giovanni nel cuore del prologo che abbiamo appena ascoltato. Il Natale - per usare le parole di Papa Francesco - è la grande misericordia di Dio, la grande tenerezza del Padre che, nel piccolo bambino di Betlemme, ci dona suo Figlio. Ce lo ha ricordato anche la lettera agli Ebrei: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio... Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente” (Eb. 1, 1-3). Di fronte alla fragilità degli uomini, Dio interviene non con una proposta filosofica o una formula etica che, alla fine, ci lascerebbero di nuovo soli con noi stessi, dove eravamo, e del tutto impotenti.
A Natale è Dio stesso a gettare il ponte della vita, il ponte che l’umanità voleva percorrere ma non era capace di costruire, per cui gli uomini - come scriveva, con spietata lucidità, la giovanissima Madeleine Delbrêl - erano sempre sconfitti nella loro lotta contro la morte. Ecco le inutili lotte dei rivoluzionari che - come abbiamo visto - un giorno dovranno “abbandonare” quel mondo che si erano illusi di costruire con la loro rivoluzione, ecco gli inutili sforzi degli uomini di scienza che, a loro volta, saranno inghiottiti da nuove forme di morte.
Solo Gesù ha vinto la morte. Solo il bambino di Betlemme che ha un volto e un nome ben definiti - il volto e il nome di Gesù - ha vinto la morte. È, però, necessario assumere la logica e la spiritualità del Natale cristiano per entrare in questo cammino di vita che nasce dalla morte. La risposta di Gesù a Giovanni Battista - che gli chiedeva: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11, 3) - è una risposta valida per ogni discepolo di ogni tempo. Gesù, infatti, rispose: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il vangelo. E - poi soggiunse - beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!” (Mt 11, 4-6). “Beato colui che non si scandalizza di me”: questa è l’unica metodologia in grado di cogliere l’evento del Natale nella sua integralità. Betlemme è, infatti, la minima tra le citta della Giudea, la grotta è solo un ricovero per animali e la mangiatoia è… solo una mangiatoia.
Il Natale, allora, è in grado di suscitare in noi l’unica vera domanda valida di fronte a Dio: ma tu, o uomo, ti fidi di Dio e ti consegni a Lui? Noi, infatti, ci fidiamo realmente di Lui se e quando ci affidiamo a Lui. Con il profeta Isaia siamo, quindi, chiamati a dire che le mie strade non sono le sue strade e i miei pensieri non sono i suoi pensieri (cfr Is 55, 8). Si tratta d’entrare nella logica della fede, una fede che ci libera e ci rende capaci di fare quanto da soli non riusciremmo mai a fare. Bisogna assumere lo sguardo di chi scorge il tutto nel frammento, il mistero del Dio onnipotente nel piccolo bambino di Betlemme, lo sguardo di chi non si scandalizza perché Dio-creatore si abbassa a incontrare la sua creatura, là dove essa si trova a causa della sua fragilità. Si è chinato sulla vita dell’uomo e l’ha assunta tutta, per dirci che sempre va difesa e valorizzata dal suo inizio, nel grembo materno, al suo naturale spegnersi.
Sì, la logica del Natale è la logica del tutto nel frammento, del mistero di Dio onnipotente nella fragilità dell’uomo concreto; è, quindi, la risposta di Dio al mondo, alle sue lobby e ai suoi poteri più o meno occulti. Fuori della logica di Dio non si capisce più come la redenzione sia un cammino libero a cui siamo personalmente invitati a dire il nostro sì, per trovare il nostro posto nella storia della salvezza. Chi non è tentato di scandalizzarsi dinanzi al silenzio di Dio nella storia?
Il silenzio di Dio è un silenzio “imbarazzante”, che diventa giudizio sulla nostra fede. Il silenzio di Dio è una prova per tutti, ma proprio attraverso tale prova Dio ci offre la possibilità di vagliare la nostra fede. Si tratta di diventare credenti, capaci di fidarci di Lui, affidandoci all’amore stesso, ossia al piccolo bambino di Betlemme in cui brilla il mistero di Dio. Francesco, a Greccio, col presepio, ce ne indica la strada. Riflettiamo su questo proprio oggi in cui sembra che il presepio stesso sia diventato qualcosa di pericoloso per la convivenza civile. Se non ci fosse da piangere, verrebbe da sorridere. A tutti un abbraccio fraterno e l’augurio di un Natale che sia progetto di vita quotidiana per ciascuno di noi e per le nostre comunità.
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