Ferruccio Brugnaro, la neve, la lotta e le radici operaie: «Tutto è poesia»
VENEZIA. Poco dopo la metà degli anni ’70, in una estate tanto calda da lasciare stremati fin quando non calava la notte, il Nuovo Canzoniere Veneto contava un discreto carnet di concerti. Alcuni brani erano particolari: prevedevano uno strumento insolito e testi inconsueti. Lo strumento era una sega da taglialegna con una lama dentata larga più di una spanna e alta da terra fino alla cintola. Era molto flessibile; agitandola emetteva uno “squash” ondulato e sonoro; si suonava utilizzando un archetto da violoncello. I testi erano poesie di Ferruccio Brugnaro.
Operaio a Porto Marghera, Ferruccio le aveva tirate a ciclostile per poi distribuirle ai compagni di lavoro ai cancelli della fabbrica. Che cosa fosse il ciclostile (specie ormai estinta) è bene spiegarlo, a beneficio di chi non conosca altro che il computer. Era una piccola macchina da stampa con un rullo rotante; all’interno del rullo si inseriva l’inchiostro; all’esterno si avvolgeva la matrice; la macchina catturava, con la rotazione del cilindro, uno ad uno, i fogli dalla risma.
I verbi erano ciclostilare, inchiostrare, smazzare, inceppare, sbuffare. Il ciclostile poteva essere a manovella o elettrico; funzionando, emetteva un suono sordo che aveva la cadenza del carrello di un treno sull’interstizio tra le rotaie: tutun (pausa) tutun.
A casa, la moglie di Ferruccio (Maria) aveva inventato per i bambini (Luigi e Gabriele) un gioco: quando papà rientrava con le risme stampate, mettevano un foglio accanto all’altro sopra il tavolo, sulle sedie, sul divano e, se serviva, anche per terra. Poi, passavano ad un’altra poesia, fino a formare le plaquette (opuscoli) che papà graffettava. Stampati di poche pagine. I figli sono adulti, ormai. Il maggiore, Luigi, è sindaco di Venezia dal 2015.
Ho suonato il campanello di Ferruccio e Maria avendo già deciso di non confezionare, nemmeno in parte, una intervista al sindaco per interposta persona. Di non tirare di carambola.
Ferruccio Brugnaro è nato nel 1936; forse non ha inventato la poesia tirata al ciclostile, ma di sicuro è parte del ristretto gruppo di chi lo ha fatto e l’ha usata a fondo. Una definizione forse troppo semplice lo indica come un poeta della beat generation; lui eccepisce, ma riconosce i legami. Probabilmente non è stato il primo poeta operaio invitato negli Stati Uniti per un ciclo di letture ma, tornato in anni diversi, ha ripetuto ad alta voce sue opere in università e campus a New York, Chicago, Los Angeles.
Ferlinghetti.
Lo ha fatto anche a City Lights, la libreria fondata a San Francisco da Lawrence Ferlinghetti. In quella occasione era stipata all’inverosimile. «Ricordo il giorno: 24 aprile del 1998; Ferlinghetti era in Europa e c’era ancora quando sono tornato dall’America. Ci siamo incontrati a Venezia; mi ha detto, so tutto; era dai tempi della beat generation che non vedevamo una ressa così per una lettura di poesia».
Ferruccio le ha lette, le sue poesie, anche nel teatro dove molti anni prima aveva cantato Enrico Caruso ( «emozione»). Ancora a San Francisco, si è ripetuto al Caffè Trieste, centro di aggregazione della comunità italiana e dove i clienti abituali ricordano, al tavolo proprio in fondo, Francis Ford Coppola appoggiare la portatile e lavorare alla sceneggiatura dei suoi film. I tour negli Stati Uniti erano stati frutto dell’impegno del traduttore americano di Brugnaro: Jack Hirschman, che si era imbattuto per caso in un ciclostilato di Ferruccio in Sicilia, quando uno studente universitario glielo aveva messo a disposizione.
Ciclostile.
Ferruccio: «Le plaquette, in realtà, sono arrivate molto più tardi. All’inizio, non volevo nemmeno ciclostilare le poesie. Le avevo fatte leggere a qualche compagno di lavoro; mi avevano proposto di stamparle ma temevo che, considerato il mio ruolo (commissione interna, consiglio di fabbrica) sminuissero il mio impegno concreto. Di fronte alla sala mensa, una ragazza mi ha detto: non sono solo tue; tu ci rappresenti; sei uno di noi; sei la complessità che viviamo. Queste, mi ha ricordato, sono tutto il nostro sogno. La lotta verteva sui grandi problemi: salute, inquinamento, salario, orario, democrazia in fabbrica, difesa della dignità».
«Avevo intuito subito che il singolo foglio, con una sola poesia, aveva maggior potere di una intera raccolta. In una raccolta, leggi la prima e, se non ti piace, scarti tutto. Nel foglio singolo arrivi in fondo alla pagina. Quindi scarti, se non ti piace. Ma arrivi in fondo». Poi, magari, ne afferri un altro, di foglio. Il giorno dopo. O quello dopo ancora.
Papà, mezzadro ed operaio.
«Mio padre si occupava di un piccolo appezzamento nostro, ma lavorava anche come bracciante per altri. Poi è stato operaio. Dal ’36, a Porto Marghera. Parlava pochissimo; qualche volta però l’ho sentito cantare, in una cucina con una finestra dall’intelaiatura un po’ precaria. Andava a volte a pescare in laguna, in piena notte, per poi crollare stanco e dormire nel fieno di una struttura che noi chiamavamo barco. Aveva un carattere forte». Un giorno, dopo che Ferruccio e Maria si erano sposati, andando ad abitare in un luogo tutto loro, si è presentato alla porta con un carretto carico di legna. Sapeva che il termosifone non c’era; nessuno gliene aveva parlato e lui non aveva detto niente. Però ci aveva pensato. «Parlava poco, agiva molto».
Madre, il canto.
«In quanto a carattere, mamma non era da meno. Amava la cultura; il canto. Ci portava all’Arena, a Verona. Alla Fenice. Aveva sensibilità, in particolare verso la natura. Indicava le piante e ne conosceva tutti i nomi. In segreto, scriveva. Lo so, perché qualche cosa mi ha lasciato».
Lotta.
«Se non abbiamo chiari i sentimenti che ci sostengono nella lotta, siamo destinati al fallimento. La poesia è uno strumento che chiarisce; che rende limpido il torbido, se la parola è vita. Se è unita all’esempio, all’impegno, alla partecipazione. C’era chi sosteneva che le parole, le poesie, fossero comunque sovrastrutture. Io dicevo che no, che non sarebbe stato così se parallelamente alla lotta da attuare avessimo spiegato quello che volevamo fare. Se avessimo chiarito che volevamo produrre, ma che dentro alla produzione intendevamo anche essere, contare, spiegarci. Far valere la grande forza che sentivamo di possedere; dimostrare che non solo sapevamo fare, ma anche pensare».
Vento, neve, gelo..
Sono le tre parole che spesso si trovano nelle poesie di Ferruccio Brugnaro. «Che contraddizione. Il freddo l’ho sofferto (mio fratello, che lavorava a Marghera, aveva diritto ad una quota di carbone, e con quello ci scaldavamo) ma mi sono sempre piaciuti i fenomeni naturali. Impazzisco per la neve; per i temporali. Quando erano al culmine, d’estate, infilavo una cerata nera con cappuccio e correvo tra le viti. Mi piaceva l’effetto dei lampi e dell’acqua che gocciolava. Ancora adesso se la sera nevica mi dispiace andare a letto. Sento un legame complessivo; una gioia universale».
Ferruccio ricorda che certe mattine il vento soffiava quasi volesse livellare il mondo. «Il vento solleva, trasporta tutti allo stesso livello. È promotore di vita; il vento spinge, è lievito, fa crescere le cose insieme, le porta a maturazione». Anche il vento è compreso nell’elenco degli elementi che gli piacciono.
Avvilito.
«Ho sempre avuto forte avversione per il dolore. Ricordo una mattina di marzo e una casa un po’ isolata. Bella, come struttura. Di quelle che adesso si recupererebbero. Ero bambino; ho visto un uomo adulto che si toglieva certe fasce che proteggevano la gamba davvero malmessa per darle alla moglie perché le lavasse, le asciugasse per poi, finalmente, riaverle e rifasciarsi. Ho provato un dolore fortissimo; sono corso a casa e mi sono gettato sul letto. Rammento ancora le parole precise dette a mia madre che mi chiedeva cosa mai fosse successo: sono avvilito, mamma, le ho confidato. Ho capito che contro il dolore mi sarei sempre ribellato. E mi sarei sempre battuto contro l’ingiustizia».
Il 1968.
Tra pochi giorni, cinquanta anni fa. «Ne ho un ricordo bellissimo. Si è trattato di un periodo glorioso. Per l’umanità, non solo per l’Italia. Era la vita che si muoveva. Dovrà ancora muoversi, se vogliamo andare avanti. Muoversi con l’aiuto della scienza, per liberarci anche di tante favole».
Un vecchio operaio, raccontato in una delle sue poesie, guarda il cielo e le sue stesse mani. Brugnaro sa disegnare con parole forti e nitide. «L’ho incontrato molte volte, quell’operaio; riuniva in sé la figura di molti operai, tutti della sua età. Sono i volti di una condizione storica. Sì: per esprimerti al massimo, devi usare il minor numero possibile di parole. E, soprattutto, utilizzare quelle che ti urtano. A volte si può credere che per essere esaurienti sia necessario abbondare con le parole; invece, così ci si allontana dalla essenzialità e dal risultato. Si ha la sensazione che aggiungendo si possa dire di più. Invece, bisogna essere convinti e paghi del poco».
Andrea Zanzotto.
«Andrea» racconta Ferruccio «mi ha difeso sempre. «Diceva che la mia era una poesia nuova che si innervava da una diversa condizione di vita». Brugnaro: «Ci sono momenti nei quali la parola scatta dentro di me. Una volta, in terza elementare, alla maestra è sembrato di riconoscere il ritmo di un verso in un pensierino che avevo scritto. Riguardava un gatto. E mi ha portato di classe in classe».
La signora Maria, intanto, passa, scompare, ricompare. Quando Ferruccio, leggendo, lascia sospeso un verso lei pronuncia subito (dalla cucina, dal corridoio, dall’altra sala) la parola che vien dopo. «Quando sono andato in pensione ho scoperto la donna» ammette Ferruccio. «Non con l’ottica della adorazione sentimentale: per il ruolo che occupa nella società. Ciò che fa. Un pilastro». Prima della pensione, forse non ci sarebbe riuscito: partiva da casa prima che facesse giorno, e tornava quando era già notte. «Con la vita che ho, con le energie che ho, mi propongo di fare. Mi propongo di coinvolgere anche gli altri, nel fare. Se c’è una assemblea, un argomento, io ci sono. Non mi impressiona la malattia; non mi impressiona la morte. È bello, fin tanto che siamo qui. Dopo, sarà bello ancora».
Ferruccio Brugnaro è tradotto in inglese, francese, spagnolo, tedesco, cinese, greco, croato. Ma nessuno può controllare fino a dove un viaggio possa portare un foglio tirato al ciclostile.
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