Felice, l’ultimo pescatore di fiume

Il “canarino” ha 60 anni: «Ho imparato dai nonni e da mio padre. Uso i loro metodi, l’unica novità è la barca a motore»
Di Giovanni Monforte

CEGGIA. Quarant’anni fa tra Ceggia, Torre di Mosto e San Donà erano almeno una quindicina le famiglie che si mantenevano con la pesca. Oggi a praticare il mestiere di pescatore di fiume è rimasto solo Felice Gazzelli, 60 anni, il “canarino” come lo chiamano tutti nella sua Ceggia. Soprannome ereditato dal nonno, come anche l’amore per il fiume. «Da bambino ho fatto in tempo ad andare a pesca con entrambi i nonni, poi ho pescato con mio padre e adesso sono io a fare il pescatore di fiume, l’ultimo rimasto sul territorio a mantenere la famiglia con questo mestiere», racconta Gazzelli, «il mio è ancora un modo di pescare antico che non ha a che fare con la moderna attività della pesca. Seguo i cicli naturali del fiume, adopero ancora gli attrezzi che utilizzavano i miei nonni, anche se per spostarmi uso la barca a motore e non a remi».

Felice prepara a mano le sue reti, ne ha un tipo per ogni fiume in cui pesca in base alle caratteristiche del corso d’acqua. La sua attività si svolge per metà sul Livenza, in parte sul Sile e un po’ sul Piave. Ed è proprio questo suo girovagare la novità, obbligata, rispetto al passato. «Un tempo si pescavano tinche, lucci, carpe. C’era tanto pesce e dunque ci si poteva limitare a pescare su un piccolo tratto d’acqua», prosegue Gazzelli, «oggi il 95 per cento del pescato è rappresentato dall’anguilla. Se nel fiume non c’è il “bisat” non c’è di che ricavare reddito. I nostri fiumi si sono molto impoveriti e negli ultimi tempi, con l’introduzione di pesci predatori non autoctoni come il siluro, c’è stato uno sterminio anche di anguille».

D’altra parte, anguilla a parte, degli altri pesci di acqua dolce non c’è neppure richiesta. Anche se oggi, con la crisi economica che incombe, al mercato del pesce stanno timidamente ritornando anche gli acquisti di carpe e tinche. Felice Gazzelli le sue anguille le vende in piccola parte all’ingrosso, ma soprattutto ai privati e ai ristoranti della zona, che del bisat stanno facendo il loro simbolo culinario.

La vita del pescatore è dura: una settimana si possono arrivare a prendere 50 chili di anguille, ma un’altra possono essere solo tre. «Tutte le mattine mi alzo all’alba, vado a recuperare le reti che ho posizionato i giorni precedenti, le pulisco e le cambio di posto», spiega Gazzelli, «oggi se vuoi cercare di sbarcare il lunario puoi calare la rete in un posto per 8 o 10 giorni al massimo all’anno, poi ti devi spostare per trovare nuovo pescato. Non si può sfruttare il fiume, non va prelevato più di quanto il fiume dà. Però questo rispetto al passato comporta un enorme dispendio di energie nello spostarsi da un fiume all’altro».

Un mestiere duro e dal reddito incerto, tanto che oggi i pochi giovani che si avvicinano alla pesca puntano piuttosto sugli allevamenti. Felice ha un figlio, che però ha scelto di fare il “pescatore di anime” e oggi regge la parrocchia nella vicina Cessalto. Quando lui andrà in pensione, dunque, forse scomparirà anche il mestiere del pescatore di fiume, almeno nel Veneto orientale.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia