Englaro: «Dino come la mia Eluana, aveva tutto il diritto di decidere»

Parla il padre della ragazza che è divenuta il simbolo del diritto a un fine vita dignitoso
Beppino Englaro con una foto della figlia Eluana
Beppino Englaro con una foto della figlia Eluana

TREVISO. «Il signor Dino aveva tutto il diritto di decidere e ha fatto bene a farlo. Non c'è nulla di trascendentale perché ha esercitato il diritto fondamentale dell'autodeterminazione, lo stesso che mi ha visto lottare per mia figlia Eluana».

Nelle parole di Beppino Englaro risuona la determinazione che ha accompagnato i suoi 5.750 giorni di battaglia.

Eluana aveva 21 anni quando nel 1992 rimase in stato vegetativo a causa di un grave incidente d'auto. Da allora è iniziato un calvario infinito, che ha portato la ragazza a morire all'età di 38 anni, dopo averne trascorsi 17 tenuta in vita da terapie che non avrebbe mai voluto subire.

Se oggi raccontiamo la scelta legittima del signor Dino Bettamin - che nella sua casa di Montebelluna ha rifiutato la nutrizione artificiale andando incontro alla morte sedato- lo dobbiamo a uomini come Beppino, che si sono battuti per dare pari dignità alla libertà di vivere ma anche a quella di "staccare la spina". La forza di affrontare polemiche feroci gli è arrivata direttamente da Eluana.

Marson Montebelluna fam Bettamin
Marson Montebelluna fam Bettamin

«Ho trovato attorno a me il deserto ma non ho mai pensato di arrendermi» racconta «dovevo dare voce a mia figlia. Lei era una ragazza straordinaria e determinata, senza il tabù della morte. Non voleva la profanazione del suo corpo e io dovevo fare in modo che ciò non accadesse. Nonostante l'Italia sia uno Stato laico e la Costituzione parli di inviolabilità della persona e della sua libertà, i medici mi rispondevano che non potevano non curarla».

A remare contro la scelta di Eluana, nel 2008 anche la Regione Lombardia con il "decreto Formigoni" che ordinò di proseguire l'alimentazione e l'idratazione artificiali. «Eluana è stata la vittima sacrificale dei medici, poi dei magistrati e anche delle istituzioni che volevano andare contro quello che aveva chiesto. Per anni la volontà di Eluana è stata negata e noi abbiamo cercato di far riconoscere il primato della coscienza personale. Quando questa entra in gioco in modo cristallino nessun giudice e nessun medico può negarla».

Gli anni nella casa di cura di Lecco, dove Eluana era ricoverata passarono a due velocità. Per la ragazza il tempo continuava ad essere fermo al giorno dell'incidente, per la società italiana si impose l'urgenza di affrontare la questione delicata del fine vita.

«Parliamo di un quarto di secolo fa, la cultura del Paese era un'altra e il caso di mia figlia ha portato per la prima volta a parlare del diritto di autodeterminazione. Fino a quel momento nessuno aveva sottolineato questo aspetto. A poco a poco siamo passati dal deserto alle risposte» continua il padre. Le prime arrivarono nel 2007 e nel 2014 con i pronunciamenti della Corte Suprema di Cassazione e del Consiglio di Stato. Ma la data più importante per Eluana è il 9 febbraio 2009. Sono le 20.24 quando il dottor Amato del Monte, primario di rianimazione della clinica "La Quiete" di Udine, telefonò al signor Englaro per comunicargli che 15 minuti prima sua figlia era morta.

Tre giorni prima, il 6 febbraio, i medici avevano sospeso l'alimentazione e l'idratazione artificiale che tenevano in vita Eluana. Per ottenere questo risultato, la famiglia Englaro dovette affrontare quindici sentenze della magistratura italiana e una della Corte Europea, l'opposizione del governo in carica, le proteste, le manifestazioni e gli appelli di numerose associazioni prolife, in gran parte cattoliche. «Il problema non era nostro, ce lo aveva creato la medicina perché la condizione di Eluana non esiste in natura e lei non avrebbe mai accettato quel tipo di terapie invasive» commenta il padre. Per Eluana la vita non corrispondeva alla sopravvivenza.

«Mia figlia conosceva il bianco e il nero, non esisteva il grigio. Era per l'autodeterminazione terapeutica, una posizione chiara che non poteva esserle negata». La sua vicenda ha aperto un varco nella discussione italiana sul fine vita, tanto che a breve, in Parlamento verrà discusso il disegno di legge sul testamento biologico. «La risposta che manca è quella del Parlamento che non si è ancora espresso con una legge definitiva per evitare discriminazioni nell'esercizio della tutela dei diritti fondamentali della persona» conclude Beppino.

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia