Effetto Giulia sui centri anti violenza: richieste di aiuto aumentate del 34%

La Fondazione Ferrioli Bo di San Donà dal 2006 aiuta le donne: «Tante ragazze si sono riviste in lei»

Maria Ducoli
Incontri al centro La Magnolia di San Donà
Incontri al centro La Magnolia di San Donà

C’è un prima e un dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, avvenuto nel novembre del 2023. Nel dopo, il silenzio che per anni ha inghiottito tante donne ha iniziato a cedere e, di pari passo, è aumentato il numero di richieste d’aiuto ai centri anti violenza di tutt’Italia.

Nella struttura sandonatese La Magnolia, l’incremento è stato di circa il 34%. «Abbiamo visto sempre più giovani rivolgersi a noi, probabilmente dopo essersi identificate con Giulia» ha confermato il presidente della Fondazione Ferrioli Bo, Roberto Bellio.

Ragazze perseguitate, bombardate di messaggi e chiamate, seguite, molestate verbalmente e aggredite fisicamente. Ragazze che hanno visto, capito, realizzato il pericolo che stavano correndo e che hanno chiesto aiuto, prima che fosse troppo tardi.

Il centro le ha accolte, offrendo loro consulenze psicologiche e giuridico-legali gratuite, indirizzandole alla casa protetta “Angolo di paradiso”, nei casi necessari, e accompagnandole nel loro percorso di ritorno alla vita, oltre la gabbia della violenza.

«La nostra struttura ha aperto nel 2006, quando ancora di violenza di genere se ne parlava poco, poi nel 2013 abbiamo ricevuto l’accredito da parte della Regione» prosegue Bellio, «le richieste di aiuto sono aumentate nel corso degli anni. Ciò che succedeva, però, era che spesso le donne tornavano a casa, credendo alle promesse di cambiamento degli uomini, ma poi tornavano, perché avevano subìto le stesse violenze di prima».

Così, nella Fondazione è nata la consapevolezza che aiutare le vittime non fosse più sufficiente.

«La violenza contro le donne è come una guerra e a noi sembrava di curare le ferite dei soldati, che poi tornavano al fronte e si facevano male. Così, abbiamo capito che avremmo dovuto lavorare sulla guerra stessa, sugli uomini».

Nel 2018, allora, viene fondato il Centro educativo relazioni affettive, per il recupero di chi agisce violenza. Negli ultimi 3 anni, sono stati 49 gli uomini seguiti dall’équipe composta da psicologi e avvocati, con la supervisione scientifica del dipartimento di Psicologia dell’Università di Padova.

Solitamente, vengono inviati dai loro legali mentre sono in attesa di giudizio, o dopo aver ricevuto una sospensione condizionale e, quindi, il percorso al centro diventa la condizione per evitare il carcere. Solo due di questi, infatti, sono arrivati al centro spontaneamente.

«Applichiamo il metodo della scienza dialogica» spiega la psicologa Teresa Camellini, «che permette agli uomini violenti di prendere consapevolezza delle modalità con cui interagiscono con le donne, aumentando il grado di assunzione delle loro responsabilità e lavorando sull’anticipazione delle ricadute dei loro gesti».

Ad affacciarsi alle porte del centro sono soprattutto uomini tra i 30 e 50 anni, ma non mancano i casi di giovanissimi così come quelli di ultrasettantenni. Il percorso dura solitamente un anno e solo il 3% decide di interromperlo prima.

«Non è facile, è un cammino faticoso e arrivati a un terzo del percorso spesso vogliono andare via, ma la soglia degli abbandoni è inferiore al 3%» prosegue la psicologa.

La maggior difficoltà? «La tendenza a giustificare la loro condotta. Sono loro a dare il pugno ma la responsabilità è sempre degli altri, che li hanno provocati. Non è facile per loro abbandonare le modalità con cui hanno interagito per una vita, ma non è impossibile. Non è vero che gli uomini violenti non cambiano, certo non succederà dal nulla, serve il giusto sostegno e un percorso ad hoc» conclude.

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