E' morto Iginio Ballarin, memoria del Grande Torino e di Superga

E' morto, all'età di 94 anni, Iginio Ballarin: nel disastro di Superga, il 4 maggio 1949, perse con il Grande Torino, i suoi due fratelli: Aldo, terzino, e Dino, riserva nel ruolo di portiere. Sull'aereo doveva esserci anche lui
Iginio Ballarin
Iginio Ballarin
CHIOGGIA. A 94 anni è morto Iginio Ballarin: era la memoria storica della famiglia chioggiotta che al disastro di Superga, dove il 4 maggio 1949 morì tutta la squadra del Grande Torino con i dirigenti e tre giornalisti al seguito, ha pagato il tributo più alto con la morte di due fratelli: Aldo, il terzino che vestiva anche la maglia azzurra e che aveva 27 anni, e Dino, che aveva 25 anni e giocava come seconda riserva nel ruolo di portiere.


Iginio Ballarin doveva partire con loro ed era già a bordo: scese all'ultimo perché un doganiere si accorse che non aveva i documenti validi per l'espatrio.


Ha vissuto una vita lunghissima, portando avanti le attività di famiglia e seguendo, sempre, il calcio: come dirigente a Chioggia e come grande tifoso della Juventus.


Così, nel 2006, si raccontava in una lunga intervista alla
Nuova

Iginio  Ballarin, la tragedia di Superga non ha voluto portarsi via anche il suo destino

"Si è portata via un pezzo di me, i miei fratelli Aldo e Dino, ma mi ha lasciato tanti anni da vivere. Su quell'aereo ero salito anch'io e avevo già le cinture allacciate".


Aldo l'aveva convinta a partire con loro
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"Io non giocavo a calcio. Avevo dieci anni esatti più di Aldo, siamo nati tutti e due il 10 gennaio, e 12 più di Dino. Ma il calcio era la mia grande passione, e seguivo da vicino i miei fratelli, stavo a Trieste con Aldo e poi quanto più possibile a Torino, quando lui era stato preso dai granata. Ero andato a vedere la partita di campionato il 30 aprile, a San Siro: 0-0 con l'Inter. La mattina dopo li avevo accompagnati a Linate: andavano a Lisbona a giocare per l'addio al calcio del grande Ferreira. Aldo mi aveva convinto a partire con loro. Avevo telefonato a mio padre, che aveva il Caffè Roma a Chioggia, per avvisarlo: "fiol d'un can", mi aveva detto. Ancora una volta, lo lasciavo solo dietro il banco".


Partire non era il suo destino.

"Avevamo già tutti le cinture allacciate quando è salito un doganiere. Qui ne ho segnati 31, dice guardando una lista, ma siete in 32. Chi è di troppo? Io alzo la mano, lui dice che non c'è problema, gli basta vedere il passaporto. Mostro la mia tessera postale: mi dice che non è valida per l'espatrio e che devo scendere. Ridiamo tutti. Mi alzo, dò una pacca sulla spalla ai miei fratelli e scendo".


Finì 3 a 2 per il Lisbona.

"Li aspettavamo per il pomeriggio del 4 maggio. Era una giornata tremenda. Io ero tornato a Chioggia, ero al Caffè Roma. Le mogli a Torino, i miei genitori a casa. La notizia arrivò dalla radio, stava su una mensola proprio sopra la mia testa. Sono morti tutti, dicevano. Corsi a casa: volevo arrivare prima di ogni altro.


E invece?

"E invece la radio l'avevano sentita anche loro. Mia madre stava su una sedia, impietrita. E mio padre: quell'uomo severo, che aveva mandato Aldo in collegio perché era troppo vivace, così duro che ancora oggi che ho novant'anni se qualcuno mi chiama rispondo "comandi" perché così ho imparato da piccolo, quell'uomo rideva, saltava sopra la tavola apparecchiata con piatti e bicchieri e quasi cantando gridava"s

ono morti tutti, sono morti tutti". Era impazzito per il dolore".


Lei, il fratello maggiore, il punto di riferimento: fu lei a partire subito.

"Chiamai il padre di Miretta e quello di Dina, le mogli di Aldo e Dino. In taxi andammo fino a Piazzale Roma, e all'alba salimmo su un treno per Torino. Andammo subito in via Torricelle, da Miretta: abitava all'ultimo piano di un palazzo altissimo. La dirigenza sceglieva apposta quelle case, facendo le scale a piedi i giocatori si allenavano. Al penultimo piano stava Mazzola, a Menti era andata meglio perché stava al primo. Miretta mi diede una valigia, con i vestiti per Aldo. Poi andammo a casa di Dina. In ingresso c'erano i pezzi di un uovo di Pasqua che Dino aveva vinto alla lotteria. Infine, andammo all'obitorio".


Trentuno morti.

"C'era una fila a destra, quelli che si potevano riconoscere, e una a sinistra, quelli di cui non restava più nulla. Di Maroso c'era solo la fede. Mazzola non volevano farlo vedere alla moglie, che sulla porta urlava e si dibatteva. Io ero accompagnato dall'industriale Viberti, conosceva bene Aldo che aveva fatto assumere nelle sue fabbriche 70 bravi ragazzi. Aldo era intatto, aveva solo il labbro inferiore e il lobo di un orecchio un po' bruciato; Dino aveva le gambe spappolate. Con le mie mani li ho vestiti e messi nella bara. Furono funerali immensi: prima a Torino, poi a Chioggia. Li portarono in corteo fino a Sottomarina".


I suoi genitori si sono mai ripresi?

"Fino in fondo, mai. In casa per fortuna c'erano le mie due sorelline, Liana e Annamaria, molto piccole all'epoca. Ma il Caffè Roma l'abbiamo dato in gestione: la gente veniva e ci guadava come bestie rare".


Del Grande Torino le restano anche tanti bei ricordi.

"Era un calcio fatto di passione. Il vero guadagno era la vittoria sul campo, per premio partita magari ti davano un chilo di cioccolato. Una volta, quella di Aldo me la sono mangiata tutta guardando la partita. Era un calcio di uomini che avevano fatto o visto la guerra, che sapevano il valore delle cose. Gran signori, come il giornalista Tosatti, e veri padri di famiglia, come Vittorio Pozzo che aveva voluto Aldo in Nazionale e quando era il momento di decidere le formazioni chiamava lui e il suo possibile sostituto: "tu metticela tutta" diceva a Aldo"e tu mettiti la tuta" diceva all'altro".


Il destino salvò lei ma volle a tutti i costi Dino.

"«Era il terzo portiere, non doveva partire. Aldo aveva insistito. Si dice, ma non ho mai saputo se sia vero, che come lui voleva partire anche Gandolfi, e che lanciarono la moneta".


Tutti voi, però, eravate tifosi della Juventus.

"«Mio padre ci aveva portato nel' 32 allo stadio, a vedere Padova-Juventus, finita 0-5. Siamo diventati bianconeri quel giorno e lo siamo rimasti per sempre".


Anche negli anni della gloria granata?

"«La Juventus è nel cuore. Ho consumato 19 macchine, da uno stadio all'altro".


E'  mai tornato a Superga?

"Ci torno e ogni volta guardo: dieci metri, solo dieci metri più in là e l'aereo passava, si salvavano tutti".


Le rimane un rimpianto?

"Quello mi è stato risparmiato. Aldo mi chiamava Maiuna, perché a ogni partita trovavo un qualcosa su cui criticarlo."Te va ben maiuna" diceva; l'ultima sera, quella di Inter Torino, mi chiamò a bordo campo: ehi, maiuna, come è andata? Sei stato perfetto, Aldo. Lui si mise a piangere, e io ringrazio Dio ancora oggi per avergli detto la verità".



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