Delitto Pamio, il Dna sulla collana spezzata incastra la Busetto

Mestre. Per i giudici della Corte d'Appello resta la prova regina e l’auto accusa di Susanna Lazzarini fornirebbe il movente: un giallo che pure lascia punti interrogativi

MESTRE. La catenina spezzata con l’infinitesimale Dna di Lida Taffi Pamio, trovata nel comò di Monica Busetto, è costata anche in appello la condanna della donna per l’omicidio dell’anziana vicina.

Quanto alle dichiarazioni apparentemente surreali di Susanna Lazzarini, arrivate dopo il processo di primo grado - prima si è auto accusata del delitto e in un susseguirsi di interrogatori ha poi detto di aver, sì, aggredito l’anziana per soldi, ma che a darle il colpo mortale era stata Monica Busetto, apparsa all’improvviso in casa - sono costate l’ergastolo all’ex operatrice sanitaria veneziana, perché hanno offerto alla Corte l’occasione per contestare all’imputata l’aggravante dei futili motivi.

Cercano così di tenere il tutto, i giudici della Corte d’assise di Appello - presieduta da Giacchino Termini - nelle motivazioni della sentenza con la quale hanno inflitto la massima pena a Monica Busetto, in un giallo giudiziario ancora lungi dall’essere del tutto scritto.

Foto Agenzia Candussi/ Furlan/ Mestre, Tribunale/ Processo a Monica Busetto
Foto Agenzia Candussi/ Furlan/ Mestre, Tribunale/ Processo a Monica Busetto

La collanina rotta. Continua ad essere la prova regina dell’accusa: trovata in un portagioie di Monica Busetto un mese dopo il delitto, ha per i giudici «una rilevanza centrale e decisiva nella ricostruzione della vicenda». Un monile - scrivono - che «presentava una traccia di materiale biologico sicuramente riferibile a Taffi Pamio. L’esito delle analisi effettuate dalla Polizia scientifica non lascia, invero, dubbio alcuno».

Si avvicina il processo per “Milly”
Interpress/M.Tagliapietra Venezia 01.01.2016.- Delitto Francesca Vianello. Conferenza stampa arresto omicida Susanna Lazzarini. Nella foto Arrestata: Susanna Lazzarini.

Gli avvocati Doglioni e Busetto hanno sempre sostenuto che si sia trattato di contaminazione: la medico legale Caenazzo che per prima ha eseguito le analisi non aveva trovato Dna della vittima, mentre la scoperta di una traccia è stata fatta a Roma, nei laboratori della Polizia scientifica. I giudici escludono la contaminazione perché tra le analisi dei reperti della scena del crimine e quelli sulla collanina sono passate due settimane. Esclusa in linea di principio una contaminazione a Roma, anche se qui i campioni arrivarono tutti assieme: «L’unico profilo rilevato sul monile è riferibile a Paffi Tamio (...) e la differenza di esiti delle analisi effettuate dalle dottoresse Caenasso e Scimi è diretta conseguenza delle diverse metodiche utilizzate, la prima per tamponamento, la seconda per immersione». Conclusioni: «Quella e proprio quella era la collana appartenuta alla vittima e sottratta durante il delitto: certo che Monica Busetto ne è venuta in possesso proprio in quelle fasi. Certo che ha partecipato a quelle fasi ed è dunque responsabile della morte della Taffi Pamio».

L’incognita Lazzarini. Eppure tra primo grado e appello, «irrompono le dichiarazioni di Susanna Lazzarini», rilevano gli stessi giudici d’Appello. Arrestata (e condannata a 30 anni, in primo grado) per l’omicidio dell’anziana amica di famiglia Francesca Vianello, a fine dicembre 2015, a gennaio Milly Lazzarini si auto accusava del delitto di Taffi Pamio, raccontando di aver ucciso l’amica della madre che l’aveva scoperta a rubarle alcuni monili, escludendo qualsiasi responsabilità della Busetto, che venne così scarcerata. Di Susanna Lazzarini era il Dna trovato su un interruttore e rimasto per un anno senza “proprietario”.

Gli investigatori insistono, contestano alla Lazzarini la circostanza che la collana è stata trovata a casa Busetto e lei cambia versione, tanto che gli stessi giudici d’appello scrivono che «le risposte fornite al pm risultano spesso il frutto delle circostanze contestate: si vuol dire con ciò che molte volte sono stati gli stessi inquirenti, attraverso le contestazioni, a fornire alla Lazzarini elementi per imbastire una risposta». La donna ribadisce l’estraneità della Busetto, fino al quinto interrogatorio, quando all’improvviso cambia versione e l’accusa: c’era anche lei. Ribadendo le accuse al processo.

Il delitto a 4 mani. La ricostruzione dell’omicidio - secondo le dichiarazioni di Lazzarini - suona quasi incredibile, ma per i giudici è coerente. Milly ha raccontato di essere andata da Lida per rubare, perché la madre le aveva raccontato che possedeva gioielli e soprattutto un anello prezioso. La donna l’ha accolta, ma mentre le preparava il caffè, si era accorta che Lazzarini stava rovistando in camera e così “Milly” l’aveva colpita alla testa con uno schiaccianoci: «Proprio in quel frangente aveva sentito chiudersi la porta d’ingresso: voltatasi aveva visto una donna e ne era seguito uno scambio di battute (....) colta dal panico, tenendola sotto la minaccia di un coltello, le aveva intimato di aiutarla o le avrebbe fatto fare la stessa fine. Busetto avrebbe aderito all’invito affermando che in tal modo la signora avrebbe finito di “sputtanarla” (....) finendola con una coltellata al collo», strappandole la collana. Avevano lavato e si erano divisi i gioielli e «prima di andar via la Busetto le aveva graffiato il volto e l’aveva minacciata di non parlare mai dell’accaduto pena fare una brutta fine».

Possibile?

Il movente. I giudici rilevano che «l’affidabilità delle dichiarazioni è assai compromessa» dal fatto che Lazzarini «ha ammesso pacificamente di aver mentito», e per loro diventa così una testimone attendibile sul movente che avrebbe spinto Busetto ad uccidere: «In primo grado era rimasto ignoto il movente. Ora, però, le indicazioni provenienti dalla Lazzarini consentono di colmare tale lacuna: la Busetto lungi dal sottrarsi all’intimidazione e dal cercare di allontanarsi e dare civilmente l’allarme, ha aderito alla richiesta di aiutarla a finire Taffi Pamio utilizzando il “pretesto” per farla finita con quella donna che la “sputtanava” e non le stava simpatica». Una crudeltà dovuta a futili motivi che ha convinto i giudici d’Appello ad aumentare la pena, da 24 anni all’ergastolo.

 

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