Delitto Pamio, aperto il processo: «Ecco perché è stata la vicina»
«Le uniche cose che dall’appartamento di Lida Taffi Pamio mancavano erano le chiavi di casa e quella collanina d’oro strappata su cui abbiamo trovato il dna della vittima. E le chiavi che Monica Busetto aveva preso le erano servite per tornare nella casa dell’anziana vittima e ripulire tutto, innanzitutto le sue impronte. Pensare che in casa sua non abbiamo trovato neppure un’impronta della vittima, segno evidente che era stata pulita da cima a fondo». Queste le parole, ieri, davanti alla Corte d’assise presieduta dal giudice Arturo Toppan, del capo della Squadra mobile veneziana Marco Odorisio nella prima udienza del processo che vede Monica Busetto accusata di omicidio volontario, quello della sua dirimpettaia uccisa il 20 dicembre di due anni fa.
Il difensore, l’avvocato Alessandro Doglioni, ha cercato di metterlo in difficoltà, chiedendogli come mai, allora, i suoi agenti, non hanno sequestrato nel bagno della Busetto anche un guanto che avrebbe potuto essere quello utilizzato per le pulizie.
È stata una lunga deposizione quella di Odorisio, che ha coordinato le indagini durate un anno per dare un volto e un nome alla presunta assassina dell’anziana signora mestrina. Ieri, ha rivelato che, stando alla ricostruzione degli inquirenti, l’imputata, presente in aula e sempre imperturbabile, dopo aver ucciso ed essere rientrata nel suo appartamento, è tornata sui suoi passi e con guanti e moccio ha ripulito l’appartamento dal sangue, che doveva essere parecchio, visto che dopo averla picchiata, strangolata con un filo elettrico, l’ha accoltellata con ben quattro coltelli, due dei quali si sono spezzati. Monica Busetto si sarebbe anche lavata nel bagno di Lida Taffi Pamio, perché gli uomini della Scientifica hanno rintracciato resti di sangue nel lavandino.
La prova principale, forse l’unica visto che le altre sono soltanto indizi, è quella della collana di Lida Pamio spezzata e trovata nel portagioie di casa Busetto. Durante la perquisizione, gli investigatori della Mobile lagunare l’hanno cercata perché sotto il cadavere avevano trovato una medaglietta che con tutta evidenza era caduto dopo che alla donna era stata strappata la catenina che la sosteneva. Quando l’hanno trovata l’hanno immediatamente consegnata al medico legale padovano Luciana Caenazzo, la quale però non ha trovato alcuna traccia di dna. Soltanto alcuni giorni dopo, grazie ad un secondo esame a trovare il dna della vittima sulla catenina è stata la Polizia scientifica di Roma. Sollecitato dalle domande del pubblico ministero Lucia D’Alessandro, il capo della Mobile ha spiegato perché solo con il secondo esame sono state trovate tracce di dna epiteliale (scaglie di pelle) appartenenti a Lida Raffi Pamio. Nel primo caso la collana non è stata smontata, nel secondo caso sì e le tracce sono state rintracciate negli interstizi delle piccole maglie in oro della collanina.
Prima del capo della Mobile è stato sentito il poliziotto della Volante intervenuto per primo in casa dell’anziana trovata uccisa. Ha raccontato che a chiamare è stato un parente, ispettore di Polizia, dopo che ad avvisarlo era stato il cugino, che si era presentato in casa della zia perché doveva accompagnarla da un medico per una visita oculistica e, invece, l’ha trovata morta, a terra, con una grande macchia di sangue sotto il corpo, nella sala da pranzo, ai piedi del tavolo. «Aveva la maglia tirata sopra la testa e della carta da cucina in bocca, probabilmente infilata perché non urlasse», ha spiegato. I prossimi testimoni dell’accusa verranno sentiti il 17 luglio, le altre udienze sono state fissate per il 25 e il 30 settembre.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia