Delitto Pamio, 24 anni alla vicina di casa

Per l’omicidio dell’87enne Lida Taffi Pamio, l’inserviente del Fatebenefratelli Monica Busetto, 52 anni, è stata condannata ieri a 24 anni di reclusione dalla Corte d’assise di Venezia presieduta dal giudice Arturo Toppan. Sono state sostanzialmente accolte le tesi dell’accusa portate avanti dal pubblico ministero Lucia D’Alessandro, che però aveva chiesto per la donna la pena massima, quella dell’ergastolo. Sono bastate poco più di due ore per i due giudici togati e i sei popolari per prendere la decisione: per omicidio volontario, aggravato dalla minorata difesa dell’anziana, l’imputata è stata condannata a 23 anni, quindi è stato aggiunto un altro anno per il furto della collanina, mentre l’accusa gli aveva contestato la rapina, infine è stata assolta dalla simulazione di reato. Monica Busetto è rimasta impassibile durante la lettura della sentenza, i suoi difensori, gli avvocati Alessandro Doglioni e Stefano Busetto hanno poi preannunciato l’appello, che presenteranno non appena saranno note le motivazioni della sentenza, dunque ci sarà un secondo processo per l’assassinio dell’anziana residente in viale Vespucci davanti alla Corte d’assise d’appello.
Secondo la rappresentante della Procura in questo processo, alla fine, è spuntata una «prova regina»: il dna della vittima sulla catenina d'oro spezzata sequestrata in casa dell'imputata. Per il pm, sia la scena del crimine sia la collanina «sono parlanti», aveva spiegato nella sua requisitoria: avevano cioè fornito elementi per individuare la responsabile dell'omicidio. La catenina d'oro che la vittima aveva al collo il pomeriggio del 20 dicembre di due anni fa, quando è stata uccisa, era stata strappata e gli investigatori della Squadra mobile poco meno di un mese dopo l'hanno ritrovata nel portagioie nella camera della Busetto. «Quella collana era della vittima», aveva sostenuto l'accusa, «l'unico dna rintracciato era il suo, mentre non c'è traccia di quello dell'imputata o della sorella o, comunque, di qualcuno della famiglia Busetto».
L'imputata, anche nell'interrogatorio che aveva sostenuto in aula, aveva spiegato che la catenina doveva essere della sorella. «Ma come mai», si era chiesta la pm, «non c'è alcuna sua traccia?». La Busetto fin dai primi momenti avrebbe cercato di cancellare le tracce, di depistare gli inquirenti. L'omicidio, presumibilmente - aveva aggiunto il magistrato - era stato un delitto d'impeto, anche se brutale ed efferato, visto che l'anziana prima è stata stordita, quindi accoltellata e infine strangolata, ma in un secondo momento Monica Busetto era tornata nella casa per pulire le tracce da lei lasciate durante l’aggressione. Quindi, avrebbe raccontato diverse bugie e avrebbe anche sparso calunnie nei confronti della vittima, sostenendo al telefono con un'amica, per sviare i sospetti sul suo conto, che «prestava soldi alla gente».
Il pm aveva spiegato che il lavoro degli uomini della Squadra mobile era stato «certosino e caparbio» e prima di imboccare la pista Busetto non ne avevano tralasciate altre, intercettando una serie di persone, compresi i parenti della vittima, e addirittura un'uomo indicato da una telefonata anonima, poi risultato estraneo. Anche le intercettazioni avrebbero «incastrato» l'imputata: alla sorella in due occasioni aveva raccontato di aver buttato via sia i guanti utilizzati in casa (durante l'interrogatorio aveva invece dichiarato di non averne mai usati) sia il tappetino posto sull’ingresso di casa sua. Prima di chiedere l'ergastolo aveva sottolineato che c’era un movente più generale che l'aveva mossa: l'odio e l'insofferenza verso tutti gli anziani con cui aveva a che fare da anni quotidianamente essendo operatrice socio sanitaria al Fatebenefratelli di Venezia, e uno più specifico, l'acredine nei confronti della Pamio a causa delle sue piante che lasciavano cadere le foglie sul pianerottolo comune, visto che l'imputata era dirimpettaia della vittima e a causa del volume troppo alto della Tv.
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