Da Venezia le regole delle nuove frontiere della criminologia
VENEZIA. L’analisi di una scena del crimine è oggi possibile grazie a sofisticate tecnologie che fino a poco tempo fa erano prerogativa solo degli scrittori di fantascienza. Le nuove frontiere della biomedicina al servizio della giustizia permettono oggi di ricostruire l’identikit di un criminale partendo dai marcatori genetici, utilizzando parti infinitesimali di Dna recuperato da un’impronta digitale oppure un capello, arrivando a determinare alcune caratteristiche uniche dell’individuo, perfino l’area geografica di provenienza o il colore degli occhi. Il tutto al servizio degli organi di giustizia internazionale, magistrati o detective impegnati sul campo.
L’universo della biomedicina ha fatto passi da gigante negli ultimi dieci anni, e se n’è discusso negli ultimi giorni al Lido di Venezia. Gli spazi normalmente destinati al festival del cinema hanno ospitato un evento mondiale unico nel suo genere e senza precedenti, che ha riunito 800 scienziati in arrivo da 65 Paesi, tra cui 170 luminari delle più importanti università e centri di ricerca mondiali. Tra questi anche 18 società scientifiche, la Croce Rossa Internazionale, la Corte Penale dell’Aja e l’Interpol.
Per inchiodare un colpevole in un caso di omicidio, ma non solo, gli specialisti forensi passano dal tracciare il profilo psicologico alla ricostruzione genetica, per fornire poi gli strumenti ai tribunali impegnati nella ricostruzione dei fatti e nel giudizio. «L’evoluzione della biomedicina non si applica solo a scopo terapeutico, ma anche in questo settore», sottolinea il professor Davide Ferrara dell’Università di Padova, presidente del convegno veneziano. «I risvolti di un tale lavoro però sono utili anche in ambito civile e assicurativo. La scienza nel nostro campo si sta muovendo in due direzioni: da un lato per creare un profilo che si adatti come un abito sartoriale a ciascun individuo fornendo dati ed elementi scientifici perfetti e dall’altro per arrivare a tecniche di imaging (risonanza magnetica o Tac) che ci possano portare un giorno perfino a rendere obsoleta la tradizionale autopsia sul cadavere, anche se non tutti condividono questa soluzione».
In Spagna, le nuove tecnologie sono state utilizzate già molte volte, come spiega Angel Carracedo, dell’Istituto di scienze forensi di Santiago de Compostela: «Sia in attentati terroristici che in casi di omicidio, analizzando i geni recuperati dalle tracce disponibili abbiamo tracciato un identikit del colpevole con le sue caratteristiche fisiche, fino a individuare età e provenienza». Tecniche che pure in Italia si stanno diffondendo con ottimi risultati. «La medicina legale assume un ruolo sempre più importante per evitare che si perdano le evidenze fondamentali di un crimine» osserva l’antropologa forense Cristina Cattaneo «non solo nei crimini domestici, quelli che si vedono nelle serie televisive, ma nei casi di violenza sessuale di cui si parla meno, spaziando dal terrorismo all’immigrazione. Ne abbiamo discusso in queste ore anche con esperti siriani».
Purtroppo non dappertutto è possibile applicare queste metodologie scientifiche, perché ci sono ancora Paesi nel mondo che vietano l’uso del Dna in caso di contrasti legali o etici. «L’importanza di quel che facciamo la riscontriamo nelle centinaia di persone che sono state liberate dopo una detenzione ingiusta», prosegue Angel Carracedo «la possibilità di definire i tratti somatici del colpevole ha permesso di evidenziare testimonianze errate che hanno portato all’incarcerazione di innocenti».
Cesare Lombroso, ritenuto uno dei padri della criminologia, riteneva che un criminale fosse tale in base alle sue caratteristiche anatomiche. E se ipotizzare di essere di fronte a una sorta di Lombroso 2.0 è un po’ forzato, tuttavia le nuove frontiere di studio discusse al Lido hanno avanzato ipotesi che un criminale non sia tale solo per l’ambiente in cui cresce, ma anche per altre caratteristiche, come reazioni specifiche individuate nella corteccia cerebral
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