Da Mestre al kibbutz “innamorato” d’Israele
In Italia uno dei problemi più sentiti è quello della “fuga di cervelli”. Questo capita anche a giovani mestrini, solo che uno di loro, Matteo Pasqualetto, invece di andare negli Usa, a Londra o a Parigi sta dimostrando, a soli 24 anni, tutto il suo valore in Israele entrando anche nelle fila dell’esercito.
Studi classici. Nato da genitori entrambi diplomati al Gramsci, ha studiato al liceo classico a Mirano e successivamente si è iscritto a storia a Ca' Foscari. Si è laureato nel maggio 2011 all'Università di Umea in Svezia dove ha potuto completare gli studi grazie a un bando di selezione dell'Unione europea.
Innamorato d’Israele. Da sempre interessato alla storia e alla cultura del popolo ebraico, sia in Europa quanto in Medio Oriente, dall'epopea del sionismo, al riscatto del deserto, all'ideale di vita comune nei kibbutz e nei moshav, Matteo sognava di visitare Israele. «Il mio primo vero contatto con la Shoah, con la maggiore delle tragedie umane e storiche del Novecento», racconta, «fu nel novembre 2010, quando accompagnai un gruppo di giovani studenti del mio vecchio liceo in un viaggio della memoria in Polonia e in Repubblica Ceca. Visitare il campo di Birkenau e camminare tra le rovine delle baracche fece scattare qualcosa dentro di me».
Ecco la svolta di una vita. Lasciare l’Italia e portare il suo sapere in Israele. «Arrivai la prima volta nel gennaio 2012, per un viaggio di una settimana», continua il ragazzo, «e mi sono innamorato di questa terra. Tornando in Italia, mi registrai a un programma di lavoro e volontariato presso il movimento dei kibbutz e, già nel marzo dello stesso anno, ero di nuovo qui. Fui assegnato a Yotvata, un insediamento della valle dell'Aravah, non distante da Eilat e dal Mar Rosso».
Vita nei kibbutz. « Yotvata è uno dei pochi kibbutzim a mantenere una struttura cooperativa praticamente intatta: tutti i servizi sono erogati gratuitamente ai membri e ai residenti, ogni lavoratore percepisce il medesimo salario, non esiste la proprietà privata degli immobili o della terra, tre pasti al giorno vengono consumati comunemente nella sala da pranzo. Non esagero quando dico che un esperimento sociale come Yotvata, o in generale il kibbutz israeliano, è probabilmente l'unica forma di socialismo sostenibile nella storia. A Yotvata c'è la più grande latteria d'Israele, che produce latte e derivati per il 60% del mercato israeliano, e una grande coltivazione di palme da datteri (esportati anche negli Stati Uniti e in Europa) e altri prodotti agricoli destinati al consumo interno o al foraggiamento del bestiame».
Volontario nell’esercito. Decise di fermarsi, cominciare a celebrare le festività e a parlare una lingua dai suoni aspri e solenni come l'ebraico, si unì al popolo ebraico e rimase, tra lo stupore dei genitori, al kibbutz e in Israele. «Fui inviato per un anno di studi in una comunità ebraica a New York e completai il corso nella primavera scorsa. Assunsi il nome ebraico di Meir, dalla radice della parola “or”, luce. Tornai in Israele in giugno e decisi volontariamente di arruolarmi nell'Esercito di difesa di Israele. Pensai di poter dare un aiuto non solo per la difesa del territorio e dei suoi residenti, ma anche attraverso i miei studi allo sviluppo educativo e culturale di una popolazione di soldati variegata per provenienze geografiche nel mondo ed estrazioni sociali. Dopo l'addestramento e un corso di approfondimento di lingua ebraica, fui collocato alla Scuola di formazione degli ufficiali a Mitzpeh Ramon come addestratore, incaricato alla supervisione dei programmi di studio. Al momento sto collaborando a un progetto di traduzione e organizzazione del materiale di studio per un corso ufficiali congiunto fra il nostro esercito e alcuni eserciti stranieri, come quelli americano e tedesco».
Parla l’ebraico. Tra i sogni di Matteo il corso ufficiali entro l'anno e rimanere in servizio per alcuni anni. Oltre l’inglese ora parla perfettamente l’ebraico, tanto che Massimo, suo padre, nonostante gli sforzi del figlio di parlare italiano, si è reso conto quando è andato a trovarlo nel dicembre scorso, che il figlio si trovava a pensare ai significati italiani di parole che uscivano spontaneamente in ebraico.
«Vivo ancora nel kibbutz, adottato da due famiglie di residenti», aggiunge Matteo. «Celebriamo le feste insieme, ci confrontiamo, come una vera e propria famiglia. È stato straordinario quando i miei genitori e mio fratello sono venuti a trovarmi. Il venerdì sera, dopo la cena dello shabbat, parlo con i nonni che furono tra i primi pionieri, tra i fondatori del kibbutz, nel 1957, e ascolto le loro storie su quanto fosse difficile crescere le colture nel terreno pietroso e salato, su come per percorrere 200 chilometri si impiegassero dodici ore, e sulla determinazione a rimanere su questo fazzoletto di terra tra le rocce e le dune».
La sfida. David Ben-Gurion, uno dei padri fondatori d’Israele ed ex primo ministro, una volta disse: «Il popolo d'Israele sarà messo alla prova nel Negev». Per Matteo il popolo ha superato quella prova e sta continuando a sfidare l'inimmaginabile. «Sento anche l'orgoglio di partecipare a una società dove lo sforzo collettivo dà un risultato maggiore di tanti sforzi individuali, dove il denaro conta poco o nulla, dove il centro dell'esperienza umana è ben lontano dalle preoccupazioni di quanto uno abbia guadagnato o perso nel mese. Posso capire che sia difficile da comprendere, ma a me piacerebbe che i miei figli nascessero qui e a maggio visiterò la comunità di New York dove mi convertii per le celebrazioni del 66° anniversario dell'indipendenza d'Israele e terrò un ciclo di conferenze nelle università per raccontare la mia esperienza e perché credo che questa fosse la migliore scelta che potessi fare».
Matteo ha anche collaborato alla traduzione e alla stesura di alcune parti di “Adele Zara, Giusta tra le Nazioni” e ora vuole contribuire a portare nel mondo anche la voglia di fare tipica italiana.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia