«Costretto a portare le persone a morire nelle camere a gas»

la testimonianza
Era costretto ad accompagnare i suoi compagni alla morte. Faceva parte del Sonderkommando, il reparto di internati che doveva condurre le persone nelle camere a gas. Un ruolo terribile che i nazisti affidavano ad alcuni dei prigionieri dei lager. Perché oltre alle uccisioni di massa, il folle progetto dei campi di concentramento prevedeva anche l’annientamento dell’umanità dei prigionieri, costretti alle azioni più terribili, come accompagnare alla morte chi, fino al giorno prima, condivideva con loro il poco cibo necessario alla sopravvivenza.
Antonio Boldrin, 96enne di Stra, ricorda tutto del suo internamento ad Auschwitz. Ieri, al circolo Auser di Noale, ha raccontato la sua tragica esperienza davanti ad adulti e ad alcuni ragazzi. «Ho dovuto accompagnare una ragazza rom e i suoi figli in una camera a gas», ricorda Antonio Boldrin, «poi ho raccolto le loro ceneri e li ho seppelliti in un angolo del campo». Sono tante le immagini strazianti che Boldrin ripercorre: «Ricordo una rivolta, quando 400 giovani atleti ungheresi provarono a ribellarsi al destino che li attendeva. I nazisti li ammazzarono di botte. Tutti. Poi io e altri dovemmo raccogliere i corpi e portarli all’inceneritore».
Non è facile ascoltare i ricordi di Antonio Boldrin, aprono gli occhi sull’inferno. Inferno da cui è riuscito a tornare, dopo che nel gennaio del ’45, quando lo stavano per impiccare, i russi liberarono il campo. «Quando sono tornato ad Auschwitz a distanza di tanti anni sono andato nell’ufficio storico che conserva i documenti del campo. Risultavo tra i morti impiccati. Gli ho detto sono qua, sono vivo». Antonio Boldrin era stato catturato in Grecia, dopo l’armistizio. Ricorda il viaggio a piedi fino a Sarajevo, dove lui e suoi compagni mangiavano l’erba pur di sopravvivere. Poi il campo di lavoro, dove conobbe anche Primo Levi. E il campo di sterminio, del Sonderkommando. «In quei momenti pensavo solo di riuscire a vedere mio figlio. Andai via di casa che avevo 18 anni, mia moglie era incinta. Il desiderio di vedere il volto di mio figlio mi ha fatto sopravvivere». —
Matteo Riberto
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