Clandestini e prostituzione: Keke Pan condannato a 7 anni e 8 mesi

Alla banda in totale 34 anni, dure pene per la madre dell’ex “re” cinese di via Piave e per lo zio dell’imprenditore

È terminato con cinque condanne con il rito abbreviato, sette patteggiamenti, tre rinvii a giudizio e un’assoluzione il processo al “re di via Piave”, il giovane imprenditore cinese Keke Pan, l’unico ad essere ancora in carcere. Tranquillo e sorridente, scortato da tre agenti della Polizia penitenziaria, ha salutato i parenti e ha parlato a lungo con il suo difensore, l’avvocato Guido Galletti, anche dopo aver ascoltato dalla voce del giudice veneziano Massimo Vicinanza la sentenza che lo ha condannato a 7 anni e 8 mesi di reclusione e al pagamento di una maxi multa di 64 mila euro. Tra condanne e patteggiamenti in totale oltre 34 anni alla “banda”.

Oltre a quello che è stato indicato come il capo dell’organizzazione o meglio, della vera e propria azienda, dagli investigatori del Gico della Guardia di finanza, che hanno indagato con il coordinamento dei pubblici ministeri Roberto Terzo e Walter Ignazitto, a vedersi condannare ad una pena superiore a quella che la sospensione condizionale può cancellare sono stati la madre Li e lo zio Wu, quattro anni e mezzo e una multa di 48 mila euro ciascuno. Sono gli unici che il 13 dicembre di due anni fa sono finiti in carcere, mentre altri due erano stati raggiunti da un provvedimento di arresti domiciliari, si tratta della moglie veneziana dell’imprenditore cinese, Alessia Degnato, che ha patteggiato una pena di due anni e una multa di 44 mila euro, e il lidense Massimiliano Salinetti, indicato come uno dei più stretti collaboratori del cinese, ma il suo difensore, l’avvocato Renzo Fogliata, ha smantellato il castello accusatorio, facendolo assolvere per non aver commesso il fatto.

Gli altri nove erano stati raggiunti da un provvedimento di obbligo di dimora e la pena per loro è rimasta contenuta, comunque sospesa grazie alla condizionale. In tre hanno scelto di essere processati in aula - sono Paola Garbin, addetta all’ufficio anagrafe del comune di Cavarzere, Barbara Ferro, titolare di uno studio di consulenza contabile di San Donà, e il cavarzerano Amino Ferrarese - e sono stati rinviati a giudizio davanti alla Corte d’assise (l’udienza è fissata per il prossimo 29 settembre).

Tra coloro che hanno patteggiato una pena di due anni ci sono il consulente del lavoro di San Donà Maurizio Pasini, il titolare dell’agenzia immobiliare “Excelsior” di Cavarzere Francesco Frigato e il vigile urbano dello stesso paese Josè D’Angelo. Il giudice Vicinanza ha anche confermato la confisca della maggior parte degli immobili che la Guardia di finanza aveva sequestrato e che sono già nelle mani del Comune di Venezia, lo stesso per alcuni conti correnti bancari.

Dodici dei sedici imputati dovevano rispondere di associazione a delinquere: stando agli inquirenti avrebbero costituito un apparato organizzativo, di cui Keke Pan, era il capo, in grado di procurare l’ingresso e la permanenza in Italia di centinaia di cinesi clandestini, documentando falsamente l’esistenza delle condizioni richieste dalla legge per il ricongiungimento dei familiari, in particolare facendo risultare con documentazione fasulla un’idonea sistemazione abitativa e residenziale e un adeguato reddito grazie al lavoro.

Per ottenere lo scopo avrebbero predisposto falsi contratti di locazione di appartamenti e falsi certificati di idoneità abitativa. Keke Pan, inoltre, doveva rispondere di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione attraverso tre centri estetici, due a Mestre e uno a Cavarzere, dove alcune giovani donne cinesi, da lui reclutate vendevano il loro corpo. Infine, era accusato anche di falsa perizia per essersi fatto nominare interprete dal giudice nell’ambito di un’indagine in cui era finita in manette una sua collaboratrice per sfruttamento della prostituzione. Avrebbe suggerito alla donna quali risposte fornire al giudice e invitandola a non rivelare che l’appartamento in cui le prostitute ricevevano i clienti era di sua proprietà. L’imprenditore e i pubblici ufficiali indagati dovevano rispondere anche di corruzione.

Le indagini sono andate a buon fine anche grazie ad un finanziere che si è infiltrato nell’organizzazione di Pan, divenendo un suo fidato collaboratore.

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