Chiese abbandonate?: «Diventino luoghi di lavoro adottati dalle imprese»

La proposta di Sara Marini, docente dello Iuav, che studia le chiese dismesse «Insediamo laboratori di ricerca invece di utilizzarle per scopi espositivi»
La chiesa di Santa Maria del pianto
La chiesa di Santa Maria del pianto

VENEZIA. A pochi metri dal suo studio, può scorgere ogni giorno il degrado progressivo e le vetrate rotte della magnifica chiesa tardoseicentesca delle Terese, dimenticata da Curia e Comune, progettata da un allievo del Longhena, Andrea Cominelli.

L’ex Convento delle Terese, ad eccezione della chiesa, è stato ceduto in concessione dal comune allo Iuav, università dove insegna appunto la professoressa Sara Marini, docente di Composizione architettonica e urbana, che da alcuni anni si occupa del problema delle chiese chiuse di Venezia e del loro possibile riuso. È in uscita un suo articolo - scritto con la dottoressa Micol Roversi Monaco, anche lei ricercatrice allo Iuav - dedicato a una mappatura delle oltre 30 chiese veneziane chiuse o aperte solo per un uso saltuario, e che avanza anche interessanti ipotesi sul loro possibile riuso.

Professoressa Marini, come ha iniziato a occuparsi del problema della chiese chiuse a Venezia?

«Interessandomi degli edifici dismessi o abbandonati nel centro storico di Venezia, del loro possibile riuso e rendendomi conto che il problema più urgente riguardava più di altri manufatti proprio le chiese, molte delle quali in progressivo stato di degrado.

Una parte di esse sono riutilizzate a scopo espositivo, ad esempio riaperte in occasione della Biennale Arti Visive per ospitare mostre.

«È certamente la forma più facile di riuso ma anche la conferma della vocazione museale di tutto il centro storico. La mia ricerca si occupa di documentare questa realtà e di verificare, attraverso ipotesi progettuali, altre destinazioni per questi luoghi, come ad esempio che possano ospitare spazi di produzione, luoghi del lavoro e contemporaneamente restare aperti anche alla visita e quindi ritornare ad essere parti vive della città. L’idea su cui si fonda questa ipotesi è che Venezia possa tornare ad essere una città dove si produce, scenario in parte già evidente ad esempio alla Giudecca dove sono stati aperti in questi anni nuovi laboratori».

A cosa pensa?

«Ad esempio all’editoria e al restauro del libro, che appartiene alla storia di questa città, a forme di artigianato artistico, ma anche a vere e proprie attività produttive o di progettazione, che si basano sulle nuove tecnologie che sarebbero compatibili anche con gli spazi delle chiese. Le chiese di Venezia devono tornare ad essere luoghi dell’assemblea, della partecipazione, perché la loro chiusura condiziona la percezione e l’uso degli spazi urbani antistanti».

Come dovrebbero articolarsi questi progetti per essere compatibili con le chiese e anche con ciò che è giuridicamente possibile insediare all’interno di esse?

«Dovrebbero avere tre caratteristiche. Temporaneità dell’uso, reversibilità dell’intervento, con l’utilizzo di strutture a secco e senza fondazioni che mantengono inalterata l’architettura preesistente, e apertura dell’edificio alla fruizione pubblica. In questo modo il riuso valorizza un patrimonio altrimenti chiuso senza pregiudicarne la conservazione, rispondendo alle esigenze espresse dalla Cei e dalla legislazione in materia. È anche pensabile che, dato l’interesse pubblico al riuso di questi edifici, possa utilizzarsi il permesso in deroga per il mutamento della destinazione d’uso. Nei progetti si ipotizza che nuovi spazi del lavoro possano convivere con l’uso pubblico culturale, mantenendo l’apertura al pubblico degli edifici. In questi scenari non è esposto il prodotto, ma il lavoro».

Sono progetti che richiedono risorse ingenti. Chi dovrebbe garantirle, visto che la Curia e lo stesso Stato sono in difficoltà nell'assicurare il mantenimento delle chiese?

«Negli ultimi anni l’imprenditoria sta tornando a curare la città, i manufatti storici e il paesaggio, c’è una sensibilità diversa rispetto al passato. Se ci fossero più imprenditori disposti ad “adottare” ciascuno una chiesa veneziana a scopo produttivo o per spazi di rappresentanza o progettazione quelle porte chiuse potrebbero essere riaperte, il loro uso e la loro immagine non verrebbero stravolti perché le modalità di insediamento delle funzioni in questo spazio sono fortemente normate. Le attività da insediare potrebbero essere nuovi laboratori di ricerca e produzione ed equivalere a piccoli gruppi di persone che lavorano in pubblico e in architetture temporanee ospitate dentro le chiese. La città potrebbe acquisire così nuovi cittadini, che lavorano a Venezia e che quindi hanno una ragione per abitarla. Se vogliamo davvero tentare di fare in modo che Venezia resti tale, non possiamo immaginarla come sommatoria di luoghi espositivi, chiese comprese. Il suo patrimonio si tutela non trasformandola solo in uno spazio museale a uso turistico».(e.t.)

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