«Cancellare il nome di Cadorna dalle nostre città»
PADOVA. Si avvicina il centenario della prima guerra mondiale. Sarà un oceano di retorica: «Grande vittoria, siamo diventati nazione, soldati eroici, noi contro l’impero, fanti incrollabili, o il Piave o tutti accoppati, non passa lo straniero…». Purtroppo su YouTube girano infiniti spezzoni sulla prima guerra mondiale, e i ragazzi di tutto il mondo li guardano: tutto il mondo sa che gli italiani morivano a caterve per gli ordini stolti dei loro comandanti boriosi e inetti. I nostri comandanti, a partire dal comandante supremo, il generale Cadorna, applicavano tattiche suicide, ordinando assalti dal basso in alto, col petto offerto alle mitragliatrici nemiche. È stato un macello di soldati soprattutto veneti e friulani, ma anche sardi, di estrazione contadina, di tutta la nazione.
Ci sono storici che dicono: «Così facevan tutti i comandanti, anche degli altri fronti». Ma non è vero. Gli alleati erano pronti ad aiutarci, mandandoci intere divisioni, a patto che sostituissimo Cadorna: se volevamo mandare a morte i nostri soldati, padroni di farlo, ma i loro soldati, no. Questa conduzione incapace e autoritaria ha portato al disastro di Caporetto. Caporetto fu definito “uno sciopero militare”, e lo sciopero fu il rifiuto di obbedire da parte della truppa che si sentiva trattata come una massa di schiavi, dal valore inferiore a quello degli animali. Caporetto fu il capolavoro di Cadorna. Sarebbe corretto e intelligente che l’Austria avesse piazze e vie dedicate a Cadorna, è stupido e ingiustificato che piazze e vie dedicate a Cadorna si trovino in Italia.
Sulle statue e sulle targhe col nome di Cadorna un graffitaro che scrivesse: “Artefice della disfatta di Caporetto”, direbbe semplicemente la verità, e il sindaco che lo facesse arrestare sarebbe un ignorante. A guerra appena finita, che il nome di Cadorna spuntasse qua e là sulle strade, è comprensibile: la monarchia aveva bisogno di consolidarsi, non poteva smentire una guida dell’esercito che lei aveva imposto, e che era costata montagne di cadaveri. E dunque silurò il comandante supremo e lo sostituì, ma senza infamarlo. Cadorna aveva posto la sede del comando a Udine. A Udine un piazzale fu dedicato a Cadorna. Quando su questo giornale scrivemmo che quell’onore era immeritato per un comandante massacratore dei nostri soldati, il Consiglio Comunale di Udine si pose la questione, e votò (3 agosto 2011) la rimozione del nome “Luigi Cadorna”, sostituendolo con “Unità d’Italia”. È stato un gesto responsabile. I cittadini di Udine possono essere orgogliosi del loro sindaco.
Un’amministrazione civica oggi non può processare o punire una colpa storica di un secolo fa. Ma può fare un’altra cosa: smettere di onorarla. Una targa o una statua col nome di un personaggio dice ai cittadini: “Questo era un grande, siate come lui”. Ma un generale che passasse sotto la targa di Luigi Cadorna dovrebbe imitarlo? Mandare i suoi soldati a morire, sapendo a priori che moriranno per niente? Un sindaco che tiene nella sua città targhe o statue di Cadorna, compie un’operazione disonorevole e incivile (contraria all’interesse dei cittadini). Mi rifiuto di credere che dove ci sono vie o statue di Cadorna (in questo momento penso a Bassano, dove in questi giorni un ex assessore regionale, Ettore Beggiato, pone la questione in Consiglio Comunale, e a Padova, dove la via Cadorna è una via importante, con una famosa clinica), ci sia un sindaco che apprezza i massacri in guerra, anche quando sono massacri dei nostri. Sarebbero sindaci sovversivi. No di certo, non sono così. Più probabilmente, pensano che cambiare nome a una via vuol dire tirar giù una targa e metterne un’altra, e aggiornare il casellario dell’anagrafe. Una seccatura. Da una parte ci sono le stragi di migliaia e migliaia di nostri fratelli, dall’altra parte c’è questa seccatura. Si può smettere di onorare il colpevole di quelle stragi, ma a prezzo di questa seccatura. Ci sono sindaci che non vogliono seccature. Quando passo per una via Cadorna, mi sento addosso la storia di quel nome e provo un senso di vergogna.
Ferdinando Camon (fercamon@alice.it)
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