Campo sinti di Mestre. Dieci anni dopo l’esperimento è fallito
MESTRE. Cumuli di macerie, rifiuti edili, spazzatura accatastata un po’ dappertutto, prefabbricati che perdono pezzi. Siamo in via del Granturco, ovvero nel villaggio Sinti di Mestre, inaugurato nove anni fa dall’allora sindaco Massimo Cacciari. Entrando e percorrendo la lunga strada che arriva al nucleo abitativo, è come essere teletrasportati in un’epoca che non c’è più.
DIECI ANNI DOPO
Neanche un decennio in cui il tempo è andato di fretta, ma non nel villaggio sinti. Oggi l’area dove il 25 novembre 2009 furono trasferiti una quarantina di nuclei famigliari -150 persone - che originariamente vivevano dall’altra parte della regionale 14, assomiglia a un set cinematografico abbandonato. La sensazione è quella di venire catapultati in un film di fantascienza ambientato in un futuro remoto, dove a causa di un cataclisma improvviso, le persone sono fuggite abbandonando tutto come stava.
L’aria che si respira è quella della smobilitazione. Molta parte delle unità abitative sfavillanti distribuite in 20 casette prefabbricate, sono semi distrutte. Le finestre rotte, i vetri in frantumi, segni di arma da fuoco di cui si è molto scritto, blitz dei carabinieri, operazioni di polizia che hanno portato ad arresti e che hanno costretto parecchi abitanti a vivere ai domiciliari in quello stesso campo.
Il primo prefabbricato sulla sinistra – ciò che ne rimane - è quello dove entrarono fior di politici per tagliare il nastro. Le casette in disuso sono diventate a loro volta ricettacolo di immondizie, segni evidenti di fuochi accesi e poi spenti.
CONDIZIONI FATISCENTI
Qualcuna è mezza diroccata. Altre sono solo vuote. In un paio si sono trasferiti i figli di alcune famiglie che da quel 2009 sono cresciuti, sono diventati ragazzi, si sono trovati la fidanzata nella comunità e hanno deciso di fare coppia e stabilirvisi. All’entrata quello che rimane delle cassette delle lettere, probabilmente in dieci anni quasi mai aperte. All’interno ci sono per lo più bollette intonse scolorite dall'acqua piovana, solleciti e ingiunzioni di Veritas. Sopra ogni bolletta il nome e il cognome della famiglia, i ceppi conosciuti di residenti del villaggio che oggi non ci sono più. Le famiglie rimaste sono in attesa di essere trasferite in appartamenti in città, aspettano, ma non sanno quando arriverà il loro momento di lasciare il campo. Nel frattempo continuano la loro vita: gli uomini raccolgono il ferro vecchio, vanno su e giù con i loro furgoncini. Vicino alle case qualche roulotte, che in principio non ci doveva stare, costruzioni abusive più volte abbattute e ricostruite, e poi statuine di santi, madonnine, Padre Pio. I più piccoli dovrebbero essere a scuola, ma molti sono al villaggio, a ciondolare. I genitori spiegano che sono convalescenti. Di tanto in tanto auto entrano ed escono, dalle case si sente la voce della tivù sparata a tutto volume. Per i vialetti si aggirano decine di gatti - forse più delle persone - di cui si occupa l’Enpa, che va a dargli da mangiare e assiste quelli malati.
CHI RESISTE
I residenti del Villaggio rimasti non vogliono foto, si voltano di schiena, mal digeriscono ospiti a casa loro. Poi quando capiscono che sei solo, senza scorta dei vigili, ti fissano da lontano prima di fare due parole. Spiegano che desiderano andarsene, che aspettano la casa, ma che la vogliono grande perché sono in tanti. Da una Uno bianca si affaccia Paolo, era lui dieci anni fa uno dei portavoce dei sinti. Adesso è più vecchio, abita in una casa ma si dice che al Villaggio tenga ancora un pied-a-terre. In auto la mamma anziana. «Devo andare a prendere il nipote» dice, e se ne va. I gatti rimarranno nel villaggio quando sarà tempo di mettervi il lucchetto. «Se vuoi te li regaliamo, prendili pure». Quando si trasferirono notte tempo dal vecchio campo, anni luce fa, i sinti lasciarono moltissimi galletti, che ancora oggi sono diventati inquilini fissi di qualche giardino di via San Donà.
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