Attentato a Mestre, la confessione: «Sì, gli incendiari siamo io e mio padre»
MESTRE. Troppe cose non erano andate come avevano immaginato: l’esplosione, il padre ricoverato in ospedale con il volto mangiato dal fuoco, la targa dell’auto persa sul luogo dell’attentato. E così, domenica pomeriggio, davanti ai poliziotti della Digos che ormai avevano stretto il cerchio su di lui, è crollato: «Sì, siamo stati noi, io e mio papà, per vendicare il nostro pub e rovinare la festa di quello nuovo». Andrea Docupil, 31 anni, è stato arrestato per attentato a infrastrutture elettriche mentre il padre, Carlo, di 52 anni, ricoverato al reparto grandi ustionati dell’ospedale di Padova, è stato denunciato per lo stesso reato. Sono gli ex gestori del pub “Ai Beerbanti”- che lo avevano ceduto - i responsabili dell’esplosione alla cabina dell’Enel di via Impastato che nella notte tra sabato e domenica ha svegliato mezza Mestre. Volevano dare fuoco alla cabina elettrica, ma non pensavano che potesse esplodere. Volevano rovinare la festa d’inaugurazione del nuovo pub-ristorante Galium, locale aperto dove fino a qualche settimana fa c’era il loro pub, e invece si sono rovinati la vita, con un gesto che, come ricorda il dirigente della digos veneziana, Enzo Gaetano «ha motivazioni assurde».
Padre e figlio sono entrati in azione verso le 3 di domenica mattina. Sono arrivati in via Impastato con la loro auto, una Santa Fe, e dopo aver parzialmente scardinato le porte della cabina con un piede di porco - poi trovato durante la perquisizione della casa - l’hanno riempita con stracci e fogli di carta imbevuti di benzina, utilizzandone circa 15 litri. Hanno deciso si prendere di mira la cabina e non direttamente l’ingresso del locale proprio per non destare troppi sospetti su di loro. Volevano provocare un incendio, per interrompere la distribuzione della corrente, ma non sapevano che, con i vapori, la benzina avrebbe provocato un’esplosione, facendo saltare in aria la cabina, come è successo. Tanto più che per accendere il fuoco hanno usato un accendino. Un botto fortissimo: il padre è stato investito al volto da una fiammata di ritorno mentre il figlio è rimasto ferito riportando escoriazioni al volto e alle mani per la deflagrazione dei detriti.
Danneggiata ma ancora funzionante l’automobile, che ha perso anche la targa, un indizio preziosissimo per gli investigatori. Dopo l’esplosione padre e figlio sono quindi tornati nella loro casa di via Nigra, lungo il Terraglio, a poco più di cinque chilometri di distanza. Hanno nascosto la Santa Fe danneggiata e sono andati al pronto soccorso dell’ospedale di Belluno convinti che lì il ricovero di Carlo, che ha raccontato di essersi bruciato con una stufa in casa, sarebbe passato inosservato. Vista la gravità i medici hanno deciso di trasferirlo subito a Padova. Quando i poliziotti sono arrivati in via Nigra hanno trovato la moglie e madre dei due, la quale ha raccontato che l’auto del figlio era stata rubata la sera prima, in una discoteca del Trevigiano. La ricostruzione però non stava in piedi, anche perché nel frattempo gli investigatori della Digos avevano chiara l’idea che non si trattava di un attentato terroristico - come era stato ipotizzato in un primo momento - ma di un episodio maturato nell’ambito dei rapporti tra la società proprietaria di una parte dei locali dell’edificio, la Masp. Così il ragazzo ha deciso di confessare, raccontando la folle notte vissuta con il padre. Sono accusati dello stesso reato, ma il ragazzo è stato arrestato perché colto in quasi flagranza (quando il fermo si verifica in continuità delle ricerche) mentre il padre è stato denunciato.
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