«Andiamo tra i terremotati per dare cibo e speranza»
Si chiama Scossa, un nome che vuole esorcizzare quella brutta bestia che i terremotati si portano dentro e che li fa sussultare nella notte nella casa colonica diocesana di Montemonaco, Casa Gioiosa, in provincia di Ascoli, dove dormono, ogni volta che la terra trema. È un gattino nero di neanche due mesi grande poco più di una mano, raccolto in mezzo alla strada da Simona, una degli otto volontari dei gruppi di Venezia Terraferma, dei Gips di Marghera e dell’associazione Protezione Civile del Lido che, assieme ai colleghi di Spinea, Quarto d’Altino e Marcon sono partiti il 26 novembre per il comune dell’Ascolano situato a 1000 metri di altezza e rientrati a casa sabato.
Mascotte. Scossa è diventata la mascotte della struttura di accoglienza: coccolata da anziani e bambini, alla fine della settimana ha trovato un tetto, adesso la sua mamma è la cuoca del campo. Ieri nella sede della Protezione civile la squadra (Salvatore Liuzza, Francesco D’Este, Marco Angelo, Simona Vianello, Davide Busatto, Enrico Santello, Marco Scaggiante e Marco Scavezzon) ha fatto il punto dell'esperienza. «Abbiamo conosciuto persone squisite», ha raccontato il capo campo Salvatore Liuzza, «che hanno bisogno di sentire una mano vicina. Quando siamo arrivati abbiamo visto un paese vuoto, non c’era gente per strada: desolante. Devi avere una scintilla dentro per lavorare con chi ha subito un trauma, un’abilità tecnica sicuramente, ma devi far sentire a chi ha perso tutto che gli sei vicino. Un po’ come le case: molte non sembrano distrutte, ma sono lesionate dentro. Ecco, le persone si portano dietro una scossa e quella successiva acuisce il segno che hanno dentro, un senso si scollamento e di scoramento».
Scosse. «È una zona bellissima», racconta il responsabile operativo, «il clima asciutto. Ma le scosse sono continue: se dormi ti svegli, speri non sia più forte, conti i secondi. Il primo lavoro è dare speranza e supporto». Specie alle persone più anziane per farle sentire utili.
Cibo e speranza. Simona, cuoca di Spinea, preparava da mangiare assieme agli altri volontari per un numero compreso tra le 80 e le 120 persone ogni giorno: colazione, pranzo, cena: «Fare da mangiare per tutti è difficile senza una struttura organizzata. Utilizzavamo quello che si trovava: se avevamo lonza preparavamo quella, altrimenti facevamo il pollo, se c’erano le uova improvvisavamo la torta, se avevamo le mele la crostata. La gente mangia tutto e deve vedere il piatto pieno perché fa freddo e perché il cibo è convivialità, speranza. Spesso veniva qualcuno e mi chiedeva la ricetta della polpetta, del dolce. Finito il pranzo era già ora di cena: ho dormito poco, sto recuperando ora. Noi sentiamo una scossa, tendiamo l’orecchio, vediamo se le cose si muovono, ma per loro ogni scossa è rigirare il coltello nella piaga e quando riparti resta un ricordo forte: loro continuano ad avere dentro quella cosa lì».
Pet therapy. È stata Simona a trovare il gatto. «Quando lo abbiamo portato in colonia abbiamo dato ordine a tutti di fare una coccola alla micetta, una sorta di pet therapy». Scossa dormiva nel magazzino, in un bello scatolone-cuccia e quando la terra tremava, qualcuno si preoccupava anche per lei.
Lavoro no stop. Nella casa colonica vivono 26 civili tra cui il vicesindaco del paese e 40 soccorritori. «È un campo atipico dentro una struttura in muratura, con tutti i problemi che può avere, noi abbiamo gestito tutto il complesso», spiegano i volontari che hanno assicurato il costante funzionamento della struttura polifunzionale, sia sotto l’aspetto tecnico-impiantistico sia nella gestione logistica e di controllo accessi, così come della tensostruttura esterna, a disposizione in caso di necessità. Grosso il lavoro di smistamento dei beni e regali che arrivavano, la preparazione delle provviste, l’allestimento della ludoteca vicina all’asilo. «È stata una soddisfazione», racconta Marco, «aiutare gente che non ti chiede niente e da te vuole solo una parola». «Lavoravamo dalle 6 alle 23», spiega Salvatore, «di notte ci concedevamo qualche passeggiata e guardavamo le stelle».
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