Alison Lapper a Venezia: la donna dello scandalo guarda se stessa

Ha destato scalpore la grande scultura che la ritrae incinta e senza arti esposta davanti alla Fondazione Cini a Venezia. In questi giorni è arrivata in città la modella inglese

VENEZIA. «Io sono così piccola e lei è così grande: è veramente fantastico». Alison guarda se stessa, e nel guardarsi assume la stessa altera postura, il collo teso, il mento sollevato. Sono passati 13 anni, allora era incinta: «È stata una gravidanza fantastica: vorrei essere sempre incinta, stavo così bene».

La bambina che fu chiusa in un istituto perché il mondo non la vedesse, oggi domina Venezia dall’isola di San Giorgio: un gonfiabile, “Breath”, un respiro alto 11 metri che ha il colore della carne ma in controluce appare violaceo. I benpensanti gridano allo scandalo, e vanno a protestare dal patriarca perché la scultura di quella donna nuda e diversa e gravida sta davanti alla chiesa; il suo amico, invece, l’amico di Alison, era a Venezia ed è passato in vaporetto davanti alla Cini. Le ha telefonato: «Hi, Ali, sei qui davanti a me, ti vedo». «Quel giorno ho deciso di venire a Venezia, per la prima volta nella mia vita».

Non che sia facile: sono dovuti passare due vaporetti prima che riuscisse a salire, non avevano la pedana e meno male che ne è passato uno con a bordo due marinai muscolosi, che l’hanno caricata a bordo. Tutti la guardavano e come se l’è goduta, Ali, quando avvicinandosi a San Giorgio gli altri passeggeri hanno cominciato a darsi di gomito: «Ehi, ma è lei, è quella della scultura».

È arrivata a Venezia per vedere se stessa: è lei davvero, “Alison Lapper Pregnant”, la donna inglese focomelica di 48 anni che lo scultore Marc Quinn volle come modella per il suo progetto su corpi, diversità e disabilità, e la volle quando era incinta. «Una pancia di 8 mesi e mezzo, 18 ore di posa. Ogni tanto mi veniva da cadere di lato, e lui mi tirava su».

È una donna senza braccia, con le gambe non sviluppate che finiscono in due piedi che la necessità ha reso prensili, li smalta d’oro, li ingentilisce con anelli sottili, li usa per truccarsi. È una donna che ha avuto un marito, che ha un fidanzato, e che tra l’uno e l’altro ha avuto una relazione dalla quale è nato Parys, suo figlio. Non si stanca di trafiggere con l’ironia chi - e c’è ancora chi - le chiede “ma come hai fatto a restare incinta?” «Non sono la nuova immacolata concezione, ho fatto come fanno tutte le donne, perché è davvero stupido non capire che anche in un corpo diverso la sessualità è uguale».

Abbandonata subito dopo la nascita, liquida con poche parole la scelta di sua madre: «Le dissero che non sarei vissuta più di una ventina di giorni, le dissero di lasciarmi in ospedale, e così fece».

Sopravvivendo all’ipotesi infondata di una morte precoce, Alison finì in un istituto, dove visse in fondo gli anni più facili: «Non mancavano gli abusi, ma eravamo 150, tutti come me, eravamo la maggioranza e i diversi erano gli altri».

La verità aspettava i bambini su una spiaggia, la prima volta che li portarono a vedere il mare: era il 1968, quando arrivarono loro tutti gli altri fuggirono, madri scandalizzate, figli in lacrime. I responsabili dell’istituto cambiarono strategia: «Ci portavano in gita nella prigione della zona. Crescendo non capivamo perché anche noi dovessimo stare chiusi come questi adulti che avevano fatto cose malvage. Ma quelle gite erano molto divertenti: i carcerati ci prendevano in braccio, ci portavano in giro per i corridoi correndo, giocavano con noi».

Non c’è un giorno particolare che abbia fatto di Alison Lapper la donna che è: forse ha pesato più di altri quello in cui ha rifiutato gli arti artificiali, ma in realtà la sua forza - e la sua rabbia anche - sono cresciute assieme alla sua intelligenza, giorno dopo giorno. Portandola a conquistare totale autonomia quando aveva 19 anni e facendo di lei, oggi, una donna che guida, lavora, dipinge usando la bocca; una donna colta, che si arrabbia quando un mondo ancora troppo ottuso la critica perché non sta abbastanza nascosta. La scultura contestata a Venezia è la copia di quella in marmo che, esposta a Tafalgar Square, sollevò polemiche e veleni. Preferisce pensare positivo: «Il giorno più bello della mia vita è stato quello in cui è nato Parys». La bocca afferra una penna da schermo e le pagine dell’iPhone scorrono per fermarsi sulla foto di un ragazzino biondo: «Guarda come è bello. Sto il più possibile con lui, il tempo va via veloce».

Alison ha un lavoro: racconta se stessa e il suo corpo con fotografie e dipinti. «Ma non ho una galleria alle spalle. La diversità nell’arte è accettata, ma non se a raccontarlo è chi la conosce perché la vive». Allora dipinge cartoline di Natale, fa parte del gruppo “Mouth and Foot Painting Artists”: «È divertente in piena estate farsi venire l’ispirazione per le cartoline di Natale».

Odia essere esclusa per presunta diversità: «La mia intelligenza non è diversa»; ancora più si stupisce di essere diventata per molti, nel mondo e dopo l’opera di Marc Quinn, un simbolo e quasi un’eroina.

Il fatto è che a dispetto della disabilità, Alison vive la normalità. Eccola ridere di Marc Quinn, la cui testa fatta del suo stesso sangue l’han dovuta mettere in un congelatore perché il frigo da esposizione si era guastato, e si stava sciogliendo: «Oh, no!! Marc in the freezer”; eccola mettersi in posa per il fidanzato sotto se stessa; eccola conversare con il segretario generale della Cini, Pasquale Gagliardi, che l’accompagna in una vibrante visita guidata. Ai piedi degli scalini che portano al Cenacolo Palladiano scivola dalla carrozzina, sale i gradini con i piedi nudi, l’abito leggero che le danza addosso. Sotto la riproduzione delle Nozze di Cana ammira, sorride, chiede. Visita la mostra di Quinn, chiede di poter firmare il libro degli ospiti. La bocca muove la penna, veloce: “Love, Ali Lapper”.

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