A Ca’ Corner della Regina la piccola utopia dell’arte: moltiplicarsi

VENEZIA. Tutto ruota attorno a Marcel Duchamp e alle sue “boites-en-valise” piene di disegni, collage colorati, immagini, scritti, schizzi: scatole magiche dell’arte, ripetute più e più volte dall’artista a moltiplicarne il piacere e la diffusione. Uguali nell’idea e sempre diverse nel loro essere “artigianali”. Germano Celant ne ha volute tre, l’una accanto all’altra, nella teca centrale contro la quale il visitatore va quasi a sbattere per prima, curiosando tra le meraviglie di “The Small Utopia. Ars Multiplicata”.
E’ la nuova mostra che la Fondazione Prada ha inaugurato ieri a Ca’ Corner della Regina, davvero splendido palazzo sul Canal Grande, che il Comune di Venezia ha venduto per fare cassa. E che Miuccia Prada e il marito Patrizio Bertelli hanno comprato per 40 milioni di euro, per la loro fondazione: 32, in verità, essendo gli ultimi 8 legati a una trasformazione di una parte del palazzo da spazio espositivo a residenziale, che per ora ha fatto arricciare il naso alla soprintendenza. Intanto la fondazione Prada offre una mostra che è una scatola delle sorprese, un piacere anche per l’occhio più profano, inseguendo «il sogno, trasmesso dalle avanguardie storiche agli artisti di oggi, di arrivare alla diffusione democratica dell'arte, attraverso edizioni, multipli e prototipi, praticando una moltiplicazione dell'oggetto d'arte per favorire una sua diversa fruizione estetica e sociale».
Qui, il genio dell’artista non sta nell’unicità esclusiva dell’opera d’arte, ma nel suo moltiplicarsi e diffondersi: democrazia vs. aristocrazia, anche nell’arte. Un’idea che attraversa il Novecento, dai costruttivisti e produttivisti russi, primi nel tentativo di intervenire su oggetti di uso quotidiano, al Futurismo italiano al Bauhaus, dal Surrealismo all’Optical, dal Dada alla Pop Art. Utopia tradita dal mercato, che l’ ha trasformata in affare moltiplicato più e più volte.
Ovunque si guardi, “The Small Utopia” offre suggestioni: i servizi da caffè di Balla e i panciotti di tessuto firmato Depero (uno dei quali prestato da Renzo Arbore), le lattine per sardine utilizzate da Arman come invito per la sua mostra del 1960, scatole e ancora scatole della celebre Merda d’Artista di Piero Manzoni (una prestata dal collezionista veneziano Attilio Codognato), la deliziosa pipa soffia-bolle di Man Ray dal titolo nostalgico “Ce qui manque à nous tous”. E, ancora, il Fluxshop, cubo-negozio (con tanto di commessa) del mondo Fluxus, trasferito con poster, oggetti, video (di Yoko Ono) direttamente da Moma di New York.
E le inconfondibili “Brillo Soap Pads Box” di Andy Warhol, i cappellini colorati di Sonia Delaunay e i concetti spaziali di Lucio Fontana e le “anonime” cassette in legno che Beuys (presente anche le sue celebri slitte) voleva vendere a 8 marchi l’una. E, Roy Lichtenstein con le sue piramidi fluo,Christo, Arp, le gelatinose Life Mask servite sul piatto da Claes Oldenburg e ancora Duchamp con le sue celebri, ripetute fontane-gabinetto, ma anche con i colorati dischi tridimensionali e i suoi sex-toys.
C’è di che incuriosire, per una mostra che resterà aperta fino al 25 novembre (10-18, martedì chiuso), permettendo anche di ammirare uno dei palazzi-chicca di Venezia, dove ieri Mariuccia Prada (di “bruciato” vestita, leggero abitino di seta stropicciato, gambe nude infilate in corti calzini maschili e eleganti scarpe di cuoio da uomo) si aggirava sorridente e quasi timida, portando il marito di teca in teca, nella folla colorata di un’inaugurazione senza discorsi ufficiali e pompa magna.
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