Nel buio totale: l’esercizio della bambina
Il racconto del giorno. Il luna park suo padre l’aveva portata nella casa degli spiriti, lei aveva paura. Aveva gridato e lui si era vergognato: era colpa sua se poi se n’era andato
«Piccola, che fai chiusa lì dentro? »
La mamma picchia con una nocca sulla porta della cameretta.
« Niente. Va’ via, ora esco».
La bambina ascolta i passi che si allontanano, il rumore spugnoso e un po’ appiccicaticcio delle ciabatte sul pavimento di piastrelle.
Immagina la figura della madre assumere i contorni sfumati di un fantasma e confondersi nel bagliore del giorno che entra di prepotenza dal balcone in fondo al corridoio, per poi farsi di nuovo nitida e ben delineata una volta girato l’angolo e varcata la soglia della cucina, là dove le cose sono ciò che sono e le persone al sicuro con altre persone o con il brusio del televisore.
Fa caldo, questa del 1983 è l’estate più torrida di sempre, come ripetono di continuo al telegiornale.
La bambina dà un giro di chiave e fa un respiro profondo
La bambina dà un giro di chiave e fa un respiro profondo. Si assicura che il grembiule da lavoro che ha recuperato in garage sia ben legato in vita, e afferra per una zampa l’enorme orso bruno di peluche che suo padre ha vinto per lei al luna park, poco prima di andarsene. È trascorso un anno da allora. Il luna park è tornato, suo padre no.
L’orso non ha mai avuto un nome.
Trascina il pupazzo davanti alla finestra, lo lascia cadere sul pavimento e chiude gli scuri con rapidità.
Di colpo una notte artificiale piomba nella stanza e satura ogni angolo, a eccezione della lama di luce che si staglia lungo il montante.
Era preparata a questo.
Accosta la sedia della scrivania alla finestra, ci sale sopra in piedi e issa l’orso sul davanzale. La schiena della bestia aderisce alla lama e getta la stanza nel buio più completo.
Non urlare. Ti sei preparata, questa volta.
Quel giorno, subito dopo aver vinto l’orso, suo padre le ha proposto di visitare la casa degli spiriti. Lei non ci voleva entrare, ma lui insisteva, era euforico e aveva gli occhi strani. Così ha ceduto. Ma quando le porte della casa si sono chiuse alle loro spalle, e il buio le è precipitato addosso senza preavviso, ha urlato talmente forte che suo padre si è vergognato di lei. Ancora un volta.
È per questo che poi non si è più fatto vedere.
La bambina scende dalla sedia con cautela. Circondata dall’oscurità, muove il primo passo.
Devi pensare a qualcosa di normale. La mamma che lava i piatti, il profumo del detersivo al limone, i rumori delle stoviglie.
Suo malgrado, la mente corre alla fiaba che era solita raccontarle la zia quand’era più piccola.
Sono sul primo gradino, nasconditi, nasconditi! Sono sul secondo gradino, nasconditi!
Non è il momento per farsi salire in testa questo genere di cose, ma il pensiero brutto ormai si è incamminato e adesso è sul terzo gradino.
Puoi farcela, puoi metterlo a tacere. È soltanto volontà, come dice la maestra di danza.
La bambina afferra il pensiero e lo spinge giù per le scale. Poi prosegue con l’Esercizio.
Raggiunge il centro della stanza e si mette a carponi. Immersa nel buio, le palme e le ginocchia nude a contatto col parquet, si impone di perquisire lo spazio che la circonda.
Prende a tastare il pavimento, una spanna dopo l’altra, concentrata come quando fa il plié e il tendu en avant.
Di tanto in tanto si imbatte in una penna, un foglio di quaderno, un gatto di polvere. Che buffo questo modo di dire: gatto di polvere. Ma anche sinistro, pericoloso. Nell’oscurità sono le parole e le consistenze più innocue a nascondere insidie. Quando sotto le dita riconosce una figurina di Miss Petticoat, la bambina la raccoglie e la infila nella tasca del grembiule.
Raggiunta la base dell’armadio, si tira su in piedi, percorrendo la superficie con la mano fino a trovare i pomelli, e spalanca le ante. Rivoli di sudore le colano lungo la schiena.
Infila le mani cieche nel ventre del guardaroba, le affonda nelle viscere di tessuti morbidi e scivolosi, ingannevoli.
In qualche modo è consapevole che il panico può sopraffarla in ogni momento, ma anche che in ogni momento lei, e nessun altro, lo tiene a bada.
Passa in rassegna gli abiti appesi alle grucce
Passa in rassegna gli abiti appesi alle grucce. Riconosce la gonna a palloncino, il prendisole con le spalline sottili, lo scamiciato di cotone color carta di zucchero, come dice sua madre. Poi è un susseguirsi confuso di stoffe dalle diverse consistenze, sempre più bizzarre, sempre più indistinguibili e aliene.
Sul ripiano inferiore trova altre figurine. Una ventina. Le raccoglie e le infila nella tasca del grembiule insieme alle altre.
Passa a esplorare la scrivania. Si imbatte nel sasso piatto che ha raccolto al fiume, nella sorpresina del Mulino Bianco a forma di fiammifero, nel quaderno col lucchetto in metallo di Dollydolly su cui ha pianificato l’Esercizio.
Esegue la stessa procedura sul letto e di seguito sul comodino, li setaccia meticolosamente, fermandosi solo per passarsi il braccio sul sudore che le imperla la fronte e le ciglia.
Quando le sembra di aver terminato, di aver recuperato tutte le decine e decine, forse centinaia, di figurine di Miss Petticoat che lei stessa ha sparso ovunque, in ogni angolo della camera, si dirige verso la porta.
Di colpo, l’ultimo tratto che la separa dalla luce diviene intollerabile. Qualcosa di simile a ciò che accade l’attimo prima di raggiungere il bagno con la vescica colma, quando si è al limite, certi di non riuscire a sopportare un secondo di più.
Allunga un braccio alla ricerca dell’interruttore. Ma lo spazio si è dilatato, l’oscurità compattata. Una vampata di paura le fa rizzare i capelli in testa, migliaia e migliaia di soldatini dritti sull’attenti.
Un arto inumano, raccapricciante, si sta allungando dietro di lei
Un arto inumano, raccapricciante, si sta allungando dietro di lei. Lo sente sfiorarle una ciocca. I soldatini atterriti: un’inutile difesa.
I movimenti si fanno lenti e vischiosi, irreali, come in uno di quei sogni in cui volontà e azione non combaciano, e al desiderio di fuga corrispondono gambe molli. O è forse vero l’opposto? E cioè che le gambe molli supportano in realtà il desiderio di restare. Di sapere.
La bambina avverte il terrore risalirle la trachea e lambirle le corde vocali, pronto a farsi esplodere in un urlo. Percepisce la propria bocca aprirsi al rallentatore, le mascelle divaricarsi fino allo scatto finale, quando la mano incontra l’interruttore.
L’impatto fra dita e plastica produce un rumore asciutto e riporta la luce. Tutto finisce.
La chiave gira, la porta si apre lentamente (si era aspettata di spalancarla).
La bambina si incammina senza correre, la tasca del grembiule piena fino all’orlo.
È la sua figura, ora, a confondersi nel bagliore che proviene dal fondo del corridoio, per poi stagliarsi più nitida e definita. Proprio come i suoi pensieri.
Le appare tutto infinitamente più chiaro, adesso.
L’autore: Odette Copat
Odette Copat è nata e vive a Pordenone. Ha un figlio, un cane, e una pianta di basilico che non se la passa tanto bene.
Laureata in Scienze Politiche, da più di vent’anni progetta contenuti innovativi per una onlus che si occupa di autismo. Con la scrittura restaura scarti e piccole cose. Il suo blog “30giorninprova” ha superato il primo mese e poi tanti altri, permettendole di farsi conoscere ai primi lettori.
Per Biblioteca dell’Immagine ha in seguito pubblicato i libri “Manuale malincomico” (2020) e “Minicosmi. Una mappa sentimentale” (2023), quest’ultimo scelto da Radio Rai per “La voce dei libri” e disponibile anche in podcast su RaiPlay Sound.
Alcuni suoi racconti sono stati tradotti nel Journal of Italian Translation.
Collabora con il Messaggero Veneto, dove tiene la rubrica domenicale “Settimo senso”, già “PNeologismi”, e con il Festival di Letteratura Verde. È tra le ideatrici del progetto “Letteralmente in vetrina” e una delle tre guide di “Pnleggebooklovers”, il bookclub di Pordenonelegge.
Sta scrivendo il terzo libro, con l’obiettivo di tirarne le fila prima che il basilico tiri le cuoia.
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